La Suprema Corte rigetta il ricorso di un ex agente assicurativo contro una banca cosentina. Il danno, anche per reputazione e privacy, deve essere provato nelle sue conseguenze concrete
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La lesione della riservatezza non genera automaticamente un risarcimento. Il danno non patrimoniale – anche quando si invocano diritti fondamentali come reputazione, immagine o privacy – deve essere provato nelle sue conseguenze concrete, potendo sì essere dimostrato per presunzioni semplici, ma solo se si indicano specifici indizi gravi, precisi e concordanti. La Cassazione ribadisce così il no al cosiddetto danno in re ipsa: «Il danno risarcibile non coincide con la mera lesione dell’interesse tutelato, ma richiede la dimostrazione di effetti pregiudizievoli ulteriori». È lo stesso solco tracciato dalla giurisprudenza recente che esclude automatismi risarcitori anche in materia di reputazione e rapporti familiari.
Il caso
Un agente assicurativo aveva citato una banca di Cosenza sostenendo che l’istituto avesse divulgato al mandatario della compagnia dati dei suoi conti personali, spingendo l’Assicurazione a revocare il mandato di agenzia. Il Tribunale di Cosenza, con due decisioni, aveva negato il danno patrimoniale (mancando il nesso causale tra la comunicazione dei dati e il recesso, attribuito invece a irregolarità nei versamenti dei premi), ma aveva riconosciuto un danno non patrimoniale per violazione della riservatezza. In appello, la Corte d’Appello di Catanzaro ha confermato l’assenza del nesso causale e, in più, ha negato il danno non patrimoniale ritenendo non provate conseguenze lesive concrete della reputazione. Da qui il ricorso per cassazione dell’agente assicurativo, articolato su tre censure.
Le risposte della Cassazione
Il ricorrente attaccava la valutazione delle prove – in particolare una testimonianza ritenuta decisiva – e chiedeva di trarne presunzioni diverse. Ma la Corte ha ricordato che l’apprezzamento del materiale probatorio è riservato al merito e censurabile in legittimità solo per vizio motivazionale “assoluto”: qui «le ragioni sono evidenti», essendo stato accertato che il recesso dipese da ritardi nelle rimesse e non dalla conoscenza dei conti. Inoltre, non è spiegato perché gli elementi richiamati avrebbero potuto rovesciare quell’accertamento né quale fatto ignoto si sarebbe potuto inferire.
Il ricorrente inoltre ha invocato una lettera della compagnia che invitava a rinnovare la fideiussione, da cui desumere che il rapporto proseguisse. Ma per la Corte manca il requisito della “controversia” del fatto: il documento è stato depositato, non è però dimostrato che se ne sia discusso nei gradi di merito né perché sarebbe stato decisivo rispetto alle «esplicite ragioni del recesso» già accertate.
Infine, il reclamo sul danno non patrimoniale. Qui la Cassazione scolpisce il principio: «il danno in re ipsa – inteso come automatica coincidenza tra lesione del diritto e pregiudizio risarcibile – non è ammesso». Anche per reputazione e privacy, «occorre la dimostrazione della conseguenza dannosa». È vero che la prova può essere data per presunzioni, ma il ricorrente non indica quali indizi concreti consentirebbero di inferire un pregiudizio effettivo: non basta evocare genericamente “elementi a disposizione del giudice”, bisogna specificarli e mostrarne la forza inferenziale.