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Quello relativo alle forze dell’ordine corrotte è uno dei capitoli più dolorosi e ancora inediti dell’inchiesta antimafia “Reset”. Dalle dichiarazioni dei pentiti e dalle attività d’indagine, infatti, emerge il sospetto che anche a Cosenza più di un uomo in divisa – fra carabinieri, finanza e polizia – abbia peccato in complicità con le cosche locali, passando loro informazioni riservate dei rispettivi uffici o, addirittura, chiudendo un occhio sui loro traffici illeciti in cambio di denaro. Nessuno di questi servitori dello Stato, infedeli o presunti tali, è rimasto coinvolto nel blitz del primo settembre 2022, ma il fascicolo dell’inchiesta abbonda di riferimenti alle loro posizioni, presagio di una tempesta che, prima o poi, finirà per scatenarsi. Nel frattempo, a un anno di distanza gli accertamenti proseguono sia in questa che in altre direzioni, ma è soprattutto nella caccia alle talpe presenti negli uffici giudiziari che la Dda di Catanzaro procede con i piedi di piombo. Il tema è di quelli insidiosi, Nicola Gratteri e i suoi pm lo sanno benissimo, anche in virtù dei precedenti che suggeriscono loro massima prudenza. Il pericolo di cadere in una trappola, infatti, è molto elevato.
In tal senso, il rischio principale è quello di prestare il fianco a strategie di delegittimazione messe in atto dai clan per sbarazzarsi di investigatori «particolarmente duri». Non a caso, così li definiva Franco Pino il 12 giugno del 1995 quando, all’alba del suo pentimento, rivela ai magistrati il progetto condiviso all’epoca insieme ad altri boss per colpire al cuore le forze dell’ordine. Niente «fucili e pistole» però, che quello «non ci conveniva». L’obiettivo, semmai, era quello di «addolcirli» fabbricando prove false sul loro conto. Il perché è lo stesso Pino a spiegarlo: «Dove non riusciamo a corrompere una persona, cerchiamo di delegittimarla. Non tutte, ovviamente. Se uno non mi combatte, perché dovrei delegittimarlo? Io devo accreditare il corrotto e screditare l’onesto. La finalità è questa».
Per farlo, pensavano di sfruttare il loro principale punto di forza: la penetrazione economica nel tessuto commerciale della città. «Noi gestiamo minimo il trenta per cento dei negozi di Cosenza» spiega Pino, snocciolando un lungo elenco delle attività che in quel periodo erano in mano ai clan: gommisti, gioiellerie, bar, negozi d’abbigliamento, finanziarie, per non parlare delle ditte edili. «Praticamente controlliamo una parte dell’economia». Praticamente.
A quel tempo, gli stipendi statali venivano erogati per il tramite di assegni che i destinatari versavano poi nelle rispettive banche di fiducia. «Ecco, noi andavamo a caccia dell’assegno del giudice, del carabiniere, del poliziotto. Per dire, se quell’assegno era di un milione, noi eravamo disposti a pagarlo anche due milioni». Una volta messe le mani sul titolo, la procedura consisteva nel versarlo sui conti delle attività commerciali da loro controllate, E nel caso in cui il soggetto da colpire fosse particolarmente tosto, «direttamente sui conti personali nostri». In tal modo gli attribuivano acquisti sotto costo o a prezzo di favore in realtà mai effettuati. E così, l’irreprensibile investigatore si ritrovava appiccicata addosso l’etichetta di cliente affezionato dei boss. «Questo per creare l’imbroglio, il polverone, per non far distinguere più il bene dal male».
Trent’anni dopo, quanto è ancora attuale questa strategia? Nel dubbio, prudenza. Che quella non è mai troppa.