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La cattura di Matteo Messina Denaro chiude almeno sulla carta una stagione del contrasto alle mafie che avremmo dovuto da tempo considerare superata: l’arresto dei latitanti della mafia stragista. Ci siamo arrivati molto tardi, la abbiamo aggiornata ancor più tardi. Non era stragista già la mafia degli anni Ottanta? I numeri sono agghiaccianti: le faide di Napoli, Palermo e Reggio Calabria fecero più morti dell’attentato alle Torri Gemelle. Assaltando violentemente le istituzioni dello Stato, nei luoghi e nelle persone fisiche della giurisdizione, la mafia si è prodotta un danno da cui non è riuscita a risalire. È sembrata per anni un contropotere legittimato dal terrore, ma il collare le si è stretto addosso.
La mafia cui dobbiamo guardare oggi, se è ancora esaustivo il disposto di cui all’art. 416 bis del nostro codice penale, è altro, fa altro. Da un lato è tornato carnalmente attuale il metodo di raccolta delle liquidità, soprattutto quando non è direttamente la mafia a porlo in essere: lo spaccio di sostanze stupefacenti ha raggiunto una riproduzione di taglio inimmaginabile, deleteria e contaminata; le estorsioni, la contraffazione, l’intermediazione sulle forniture e il contrabbando sono capillari. L’azzardo attraverso le nuove tecnologie… poi… È terreno di incontro di mafie di tante origini.
Dall’altro, i vertici delle organizzazioni di affiliati hanno un paniere di investimento che si svolge ormai quasi integralmente nel capitale dell’economia lecita. Nuove forme di malaffare premono sulla nostra società: il traffico di esseri umani, lo sfruttamento del lavoro irregolare (sfruttato appunto perché mai regolarizzato), il traffico di organi, lo smaltimento di rifiuti, sempre più sotterraneo quello dei più dannosi.
La mafia nella quale Messina Denaro diventava un giovane latitante di peso è completamente diversa dalle mafie al tempo in cui lo stesso boss è catturato in una clinica di Palermo. Per certi versi, entrambe le forchette del crimine mafioso oggi (quella di prossimità: che assegna alloggi o stipendi o dosi da piazzare o rapine da autorizzare; quella di vertice: che entra con prestanomi sempre meno immacolati nei CDA, nei consigli comunali, nei grandi complessi di edilizia, divertimento, energia, comunicazioni) sono oggi più forti. La prima vedrà sul campo l’allentamento della morsa ispettiva, la seconda punterà a salvare la sua cassaforte.
I latitanti che non fuoriescono dal quadro decisionale delle loro organizzazioni, idolatrati, venerati, temuti o avversati, sono uno scudo, una camera di compensazione, ma anche un rischio, un peso e un costo tremendo. Tutte le volte in cui la parte complottistica della nostra stampa e soprattutto della nostra opinione pubblica immagina grandi comparaggi dietro la caduta giudiziaria dei boss si assume come anomalo e spettacolare un dato organizzativo banale.
A volte i boss “pesano” ai loro stessi fedelissimi: logistica, comunicazioni, spostamenti, decisioni a distanza. La mafia impositiva resta tale se ha anche duttilità territoriale. La cattura di un capo può essere un grosso tracollo, una disarticolazione che attira nuovi equilibri e persino nuove conflittualità per conseguirli, ma è anche un momento in cui mansioni e meccanismi si alleggeriscono di molto. Ovviamente non arriveremo all’assurdo di dire che la cattura di Matteo Messina Denaro sia un demerito per lo Stato e un danno alla giustizia. Tutt’altro: lavoro annoso, certosino, complesso. E Denaro, se pure non è l’epicentro di tutti i segreti italiani, come invece lo si descrive, certo sa e deve rispondere di una nutrita collezione di fatti e misfatti.
Solo che il domani comincia adesso: occorre una legislazione diversa e un approccio metodologico profondamente rinnovato. Superare la mentalità dell’acchiappo e dello strascico, affinare la cooperazione giudiziaria, intervenire a migliorare i servizi dove l’intermediazione mafiosa agisce in rapporti di concorrenza (appetibilissima) coi poteri dello Stato. E tornare magari a investire nell’educazione, nell’istruzione e nella formazione per nettare chirurgicamente il “reclutamento”, che è base di ogni mafia e “milizia” di questo mondo. Pensare che la cattura di un sessantenne viepiù malato sia il punto del game over, del calo di tensione, e credere che si stia facendo tutto bene sarebbe un’altra specie di crimine.
Dobbiamo riformare le interdittive di mafia, perché se ieri la mafia si localizzava nel bunker, oggi è al sicuro nell’impresa. Rendere il credito trasparente ed accessibile. Alzare le antenne sulla produzione e sul traffico d’armi. Monitorare i crimini in materia ambientale, che sono tra i settori nei quali la notizia di reato è più farraginosa, discontinua, talora apertamente inavveduta. Controllare ogni centesimo di spesa pubblica in sanità per massimizzarla con intelligenza e risultati. Oggi tanti scriveranno gli “io c’ero”, il dovere di pensarsi profiler a caccia del boss. Vuol dire che proprio quelli non ci sono. Dobbiamo essere presenti, noi.