Il 28 luglio del 1982 la ‘ndrangheta uccideva il commerciante ed ex sindaco della città di San Francesco, la scelta di eliminarlo fu determinata da un sospetto infondato
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Uccisi per errore o perché ritenuti pericolosi: il sangue versato dagli innocenti dal 1978 ai giorni nostri è anche quello di donne, anziani e bambini
Paola, 28 luglio 1982. In Italia si festeggia ancora la Nazionale di calcio vittoriosa al Mundial di Spagna diciassette giorni prima e nella città di Paola si consuma un omicidio. Capita spesso in quei giorni, del resto è in corso una guerra di mafia che dalla città capoluogo, Cosenza, si è estesa a tutta la provincia, costa tirrenica inclusa. Quello però non è un omicidio come gli altri. E’ un evento molto più doloroso.
Pompeo Panaro è un consigliere comunale della Democrazia cristiana di Paola, molto conosciuto nella città di San Francesco dove ha ricoperto anche il ruolo di vicesindaco. Il suo non è un omicidio politico, piuttosto è un tragico errore.
Trentatré anni dopo, l’unico uomo finito sotto accusa per la sua morte, il boss pentito Giuliano Serpa, sarà assolto per intervenuta prescrizione del reato. L’omicidio è imprescrivibile, vero, ma episodi più datati come questo, in caso di riconoscimento di attenuanti all’imputato, rientrano nella categoria dei crimini soggetti a estinzione. E nel caso di Serpa, ovviamente, le attenuanti sono rappresentate dal suo status di collaboratore di giustizia.
Parlare di crimine impunito alla luce di questa sentenza, però, è esagerato. L’uccisione del povero Panaro, infatti, impunita lo sarebbe stata a prescindere. Non tanto per il ruolo marginale rivestito da Serpa nella tragedia, quanto per il fatto che non è stato possibile incriminare mandanti ed esecutori materiali: alcuni sono ormai defunti, per altri non c’erano riscontri alle indicazioni date dal pentito.
Di certo, dunque, c’è solo che Panaro è morto. Sembra una banalità, ma per una serie di eventi, tanto sfortunati quanto surreali, fino a poco tempo fa, la sua è stata dichiarata solo una morte presunta, il tutto a scapito dei suoi familiari e della sua memoria di vittima innocente della mafia.
Dicevamo, ucciso per errore. Al suo impegno in politica, Panaro abbinava il mestiere di commerciante. Nell’estate del 1982, l’anno di Pablito, Pompeo era titolare di un negozio di generi alimentari a Paola. Ignorava che in un appartamento limitrofo al suo locale, si nascondesse un latitante della ’ndrangheta. I fiancheggiatori di quest’ultimo andavano spesso da Panaro ad acquistare vettovaglie e, quando i carabinieri fecero irruzione nell’appartamento, arrestando la primula, si misero a caccia del delatore che aveva fatto la soffiata ai carabinieri.
Per ragioni imperscrutabili, i sospetti caddero su Panaro. Stando al racconto di Serpa, fu proprio lui a insinuare il dubbio negli altri, consigliando loro di interrogare il commerciante. Cosa che avvenne il 27 luglio. Il giorno prima gli avevano rubato l’auto e, 24 ore più tardi, lo attirarono in un tranello con il pretesto di restituirgliela. Ad attenderlo, invece, c’era un colpo di pistola che gli trapassò il cuore.
Fu sepolto, ma i cani fecero scempio del suo corpo, suggerendo agli assassini di tornare sul posto e completare il lavoro con l’acido. Di lui restò solo un osso, ritrovato già nel 1984 e custodito nella cappella di famiglia fino al 2007, quando gli esami del Dna confermarono ciò che già si sapeva: che per Pompeo Panaro non ci sarebbe stata giustizia.