Il giornalismo, quando perde libertà, perde tutto. Pietro Bellantoni lo sapeva e lo praticava, con la stessa ostinazione con cui tornava al suo mare.

C’è un’immagine che torna prepotente, oggi come allora: Pietro in moto, il casco sulla testa, il sorriso e lo sguardo rivolto al mare di Scilla, il suo paese, la sua radice più profonda. Quel mare che per lui era bussola e respiro, ma anche promessa di libertà. Due anni sono passati da quella notte che lo ha strappato troppo presto alla vita, eppure il suo passo risuona ancora in redazione. Perché Pietro non era solo un direttore, era un giornalista che portava addosso la sua terra come una seconda pelle.

Di lui si ricorda la competenza, la scrupolosità, la penna tagliente. Ma restava addosso, soprattutto, la gentilezza con cui sapeva far squadra, quella capacità rara di unire rigore e umanità. Pietro entrava nelle storie senza mai calpestarle, con lo stesso rispetto con cui si affacciava al suo mare. Amava le curve della strada che da Reggio portano a Scilla, perché lì c’era il senso della sua corsa: la libertà, certo, ma anche il rischio. E il giornalismo, per lui, era proprio questo: libertà e rischio, da assumere insieme, senza compromessi.

Oggi, a due anni dalla sua scomparsa, questa immagine ci interpella più che mai. Perché anche il giornalismo vive il tempo delle minacce e delle curve improvvise. Come quel mare che rischia di essere violato, come quella Scilla che teme di perdere la sua anima, così il nostro mestiere è insidiato da pressioni, precarietà, algoritmi che corrono più veloci delle verità. Siamo in un’epoca in cui il racconto libero sembra un lusso, e la verità un prodotto da confezionare in fretta. Pietro non avrebbe accettato questo ridimensionamento. La sua schiena dritta resta monito: il giornalismo non può essere ridotto a rumore di fondo.

Scrivere, per lui, significava prendersi cura di una comunità. Raccontare non era solo informare, era un atto di responsabilità civile. È questa la lezione che ci lascia: il mestiere di giornalista ha senso solo se difende la libertà di tutti, anche quando costa, anche quando espone al rischio. Pietro aveva il coraggio di farlo, e lo faceva con passione, con tenerezza, con quella radicale onestà che è la sostanza del nostro lavoro.

Oggi, ricordarlo significa molto più che celebrare la sua memoria. Significa guardare dentro il nostro mestiere e chiederci se siamo ancora capaci di reggere l’urto delle onde, se siamo pronti a difendere il diritto di raccontare senza piegarci. Pietro, col suo mare e la sua moto, ci ricorda che la libertà non è mai garantita: va scelta ogni giorno, va difesa con la voce, con l’inchiostro, con la schiena dritta.

Per questo il suo nome non è solo un ricordo, ma una sfida. Due anni dopo, resta il dovere di proseguire la corsa, anche quando la strada sembra più pericolosa. Perché il giornalismo, se vuole ancora vivere, deve ritrovare quel vento in faccia che lui amava tanto, e imparare di nuovo a non avere paura delle curve.