«Ho trent’anni e lavoro da quando ne avevo 19, sempre nel commerciale». Esordisce così Laura (il nome è di fantasia) nel descrivere la sua personale discesa agli inferi del lavoro sfruttato e sottopagato.

Di spalle – perché farsi riconoscere potrebbe costarle rimanere fuori da un mercato che, per quanto spietato, le consente comunque di ritagliarsi un minimo di autonomia – Laura racconta la sua storia in un video acquisito dagli attivisti del movimento politico cosentino La Base. Un tassello di un’indagine ancora in corso, «partita dalle nostre esperienze personali», spiega Vittoria Morrone, per andare a mettere il naso in diversi settori.

Il primo passo è stato quello di rispondere ad annunci di lavoro, chiedendo informazioni su retribuzione e monte ore. «È venuta fuori una media di 3,50 euro all’ora, 4 se va bene», sottolinea Morrone. «Un dato – prosegue – che ci dice che gli stipendi al Sud, nella provincia di Cosenza in particolare, non ci permettono di essere indipendenti e avere una vita dignitosa, soprattutto in un periodo in cui i rincari pesano sulle famiglie più di prima».

Un meccanismo perverso che con una mano crea l’illusione di darti da vivere mentre con l’altra la vita te la erode a piccoli pezzi.

C’è il parrucchiere che per un full time – dalle 8 alle 19 con un’ora di pausa pranzo «quando possiamo» – offre 650-700 euro al mese; il ristoratore che per un posto da lavapiatti propone «45 per i banchetti e 55 per i matrimoni» con orari che vanno dalle 17 fino alla fine dell’evento, «minimo l’una, massimo le tre»; il meccanico che per la giornata intera paga mille euro, «per il part-time intorno alla metà, poi dipende da quello che riesci a fare».

L’esperienza lavorativa di Laura si è svolta finora nel campo dell’abbigliamento. Un mondo di sorrisi e cortesia che dietro le quinte mostra invece il suo volto peggiore. L’ingresso a 19 anni, senza contratto e con una retribuzione di 300 euro mensili per 40 ore settimanali.

Poi è arrivato il contratto: «Era da 30 ore settimanali ma in realtà ne facevo 48, se non 50, per 700 euro mensili», racconta la giovane.

Un crescendo di umiliazioni sopportate stringendo tra i denti la convinzione che il percorso in salita, prima o poi, sarebbe sfociato in una discesa. Solo che quella discesa Laura non l’ha ancora incontrata.

«Una delle esperienze più brutte è stata prima della pandemia – racconta ancora – in un negozio dove ho lavorato per 11 mesi. Avevo un contratto di 20 ore e ne facevo 50, nel periodo di Natale non ho avuto neanche un giorno libero. Tra novembre e fine gennaio ho lavorato tutti i giorni».

Un impiego in cui l’irregolarità era diventata vera e propria violenza. «Mi rinnovavano senza chiedermi neanche la firma, nonostante avessi chiesto più volte di ridiscutere il contratto. L’unica volta che sono riuscita a parlare con il titolare lui si è rivolto a me con delle minacce, dicendomi che se me ne fossi andata non avrei lavorato più da nessuna altra parte».

Le parole di Laura colpiscono senza stupire, descrivono uno spaccato che non sorprende ma che ugualmente indigna chiunque si trovi da questa parte della barricata. È l’altra faccia dell’ormai diffusa narrazione secondo la quale i giovani non sono abbastanza votati al sacrificio e il reddito di cittadinanza incoraggia quanti non hanno voglia di lavorare, mettendo in difficoltà quanti invece il lavoro lo offrono. E poco importa a che condizioni. Il lato oscuro di quella narrazione tutta sbilanciata sulla ragione del più forte.

Una ragione che non tiene conto dei diritti né, in molti casi, di elementari principi di umanità. Nella sua intervista senza volto, Laura rivela di essere anche finita in ospedale una volta, «perché mi sono fatta male al collo trasportando delle scatole». Al rientro, la responsabile l’ha accolta così: «Mi ha detto di non dare fastidio e di non cercare l’attenzione del mio datore di lavoro perché mi avrebbe reso la vita impossibile».

Una routine di ingiustizie alla quale è facile assuefarsi, spegnendo anche l’ultimo spiraglio di luce: la solidarietà tra pari. «Quello che mi ha fatto più male – riferisce Laura – è stato il commento di una mia collega: “Guarda, almeno loro pagano. Io per anni ho lavorato per persone che mi pagavano ogni tre mesi”». La regola del meno peggio che fa fuori ogni altra regola.

Da quel vortice Laura si è tirata fuori. Ma la bufera, tutt’attorno, continua a infuriare. «Attualmente cerco lavoro e sto facendo dei colloqui. Le prime domande che mi vengono rivolte riguardano se sono fidanzata, se convivo, se voglio dei figli. Alcune volte mi è stato chiesto anche che reddito ha il mio compagno».

Quelle odiose e tollerate consuetudini, contro le quali è molto più raro vedere puntato un dito che preferisce invece indicare il reddito di cittadinanza come l’incarnazione di ogni male nel mondo del lavoro, temuto agitatore di acque che si vorrebbero chete seppur torbide. «Il reddito di cittadinanza – afferma Vittoria Morrone – ha fatto venir fuori una realtà drammatica. Tra l’altro all’attacco al reddito non corrisponde, da parte del Governo, un piano per il lavoro, soprattutto al Sud. E allora che cos’è questa, una guerra contro i poveri?».