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Che in questo Paese non si possa parlare di Genocidio dei Palestinesi, ma ci si possa esprimere al massimo con un democristiano “stop a tutte le guerre” è stato definitivamente chiarito ieri, a suon di manganellate nei denti a dei temibili adolescenti toscani che, invece di passare il loro tempo su tik tok hanno pensato bene di interessarsi alla politica internazionale.
Al di là delle debolissime spiegazioni espresse rispetto alla vile ed inequivocabile azione mostrata nei video, che tutto era tranne una difesa necessaria di fronte ad una situazione che minacciava l’ordine pubblico, il punto è che, probabilmente, esiste una parte della nostra società che ha completamente perso di vista alcuni principi cardine che fondano il nostro vivere civile.
Quando, infatti, leggo che le cariche e le manganellate sono scattate “quando i partecipanti alle manifestazioni hanno cercato di forzare gli sbarramenti posti delle forze dell’ordine, per dirigersi verso il consolato Usa a Firenze e verso la sede centrale dell’Ateneo di Pisa” si capisce bene come ormai ci si muova su piani di ragionamento completamente scardinanti.
La domanda infatti non dovrebbe essere perché sono scattate le cariche, quanto piuttosto perché si è disposto di porre degli sbarramenti ad una manifestazione pacifica di studenti minorenni, sindacati di base e comunità palestinese.
Strano, infatti, che nessuno abbia compreso che non si tratta di normalissime procedure di sicurezza previste in ogni manifestazione, come è corretto che sia, ma che siamo arrivati al punto in cui lo Stato decide, senza alcun motivo, di imporre aprioristicamente con la violenza ai cittadini delle restrizioni alla libertà di manifestare pacificamente il proprio dissenso.
Come sia possibile che solo in pochi si accorgano di questo graduale passaggio e per questo si allarmino e come sia spiegabile che dei poliziotti agiscano con una tale spietatezza nei confronti di ragazzini che esprimono le loro idee e la loro solidarietà ad un popolo martoriato, è l’altro tema. La spiegazione potrebbe essere data dal paradigma sperimentale sulla cattiveria umana di Milgram, che dimostrò che l’obbedienza ha una variabile situazionale.
Si tratta di un esperimento di psicologia sociale che iniziò tre mesi dopo l’inizio del processo a Gerusalemme contro il criminale di guerra nazista Eichmann, il cui obiettivo era studiare il comportamento di individui che ricevono ordini in conflitto con i loro valori.
I risultati generarono sconcerto perché Milgram mostrò come una figura autoritaria, che in un dato momento e contesto è considerata legittima, può indurre diversi individui a un livello di obbedienza tale da indurli a ignorare la propria etica. Di fronte a questo tipo di autorità i soggetti si considerano, dunque, semplici esecutori ed il loro “stato di deresponsabilizzazione” sembra essere innescato oltre che dalla presenza di una “autorità” percepita come legittima, dalla adesione a un sistema di regole e abitudini condivise e consolidate, nonché dalla pressione sociale.
Disobbedire alla figura autoritaria significa, infatti, metterne in discussione il potere, perdere la sua approvazione e i vantaggi che da essa ne derivano. Infatti, a esperimento finito, tutti si giustificarono dichiarando di aver dovuto obbedire a ciò che il clinico diceva. I soggetti dell’esperimento non si sono perciò sentiti moralmente responsabili delle loro azioni, ma meri esecutori dei voleri di un potere esterno.
Questo, può darsi, è il meccanismo che spinge dei poliziotti ad agire con quella furia indecifrabile nei confronti di giovani ed innocui manifestanti.
Ancora questo è ciò su cui si dovrebbe riflettere: l’obbedienza come meccanismo psicologico che collega l’azione individuale a uno scopo politico. La storia ci ha mostrato innumerevoli volte che l’obbedienza può indurre le persone a mettere in atto determinati comportamenti, al di là delle convinzioni etiche, dei sentimenti di vicinanza al prossimo o della condotta morale.
Probabilmente, dunque, il limite incerto tra il bene e il male si perde tra le pieghe ambigue dell’obbedienza e del rispetto delle regole, e si muove tra cosa siamo disposti a perdere e cosa potremmo diventare, a seconda degli interruttori che ci chiedono di spingere, prima di essere finalmente capaci di decidere di fermarci.