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In un paese civile (persino in Iran) chi sopravvive a un primo tentativo di esecuzione capitale ha salva la vita. Questo perché, inutile negarlo, la pena di morte è solo un macabro rito simbolico con cui si compie un’opera malvagia e teatrale di giustizia esemplare.
Non è un caso se la pena di morte, quale castigo fuori dal tempo e dallo spazio giustificato da nobili fini di giustizia, continua a sopravvivere in un Paese la cui storia si regge sulla Bibbia, da cui si genera l’idea di giustizia, e sulla pistola, da cui origina la sicurezza. Archetipo curioso, se si pensa che negli Stati Uniti la pena di morte non ha fatto registrare alcuna diminuzione dei reati e che ciò che più minaccia l’ordine e la sicurezza pubblica è proprio la libera circolazione delle armi. Se dunque appare disturbante l’idea che nel 2024 uno stato democratico, possa pensare di agitare la furia della pena capitale per garantire il rispetto della legge e dell’ordine, ancora più inquietante è ciò che sta per accadere a Kenneth Smith, 58 anni in carcere da 35, la cui esecuzione è stata fatta già nel novembre del 2022. Legato a un lettino a forma di croce, per oltre un’ora di tentativi da parte dei carnefici del carcere di Holman di inserire i due aghi dell’iniezione letale, avvelenato ma ancora vivo, è stato ricondotto in cella allo scoccare della mezzanotte come in una sadica versione di cenerentola al contrario, quando il tempo della condanna a morte era scaduto. Kenneth è stato curato, ristabilito fisicamente ma non psicologicamente ed oggi, però, lo Stato vuole ucciderlo di nuovo con un piano questa volta civilissimo ed infallibile e cioè passando dalla iniezione letale alla “ipossia da azoto”, termine scientifico edulcorato che si ritrova nel nuovo protocollo di morte. In realtà ciò che tra poco accadrà non è niente di diverso da ciò che avveniva fino al 1999, quando nella camera della morte a tenuta stagna si scioglieva una pasticca di cianuro, in modo da impedire all’ossigeno di arrivare al cervello e subito dopo nel cuore. Soffocare educatamente Smith legandogli una maschera ermetica sul viso e costringendolo a inalare solo azoto puro in modo da far giungere la morte in modo dolce e beato, dopo la tortura già subita, sembra così una scelta tutto sommato onesta.
A nulla sono valsi gli appelli dei suoi avvocati, secondo cui un secondo tentativo di esecuzione dopo i traumi causati dal fallimento del primo, violerebbe l’ottavo emendamento della Costituzione contro punizioni crudeli e inusuali e a nulla sono valsi finora i numerosi interventi, tra cui quello dall’Alto commissario Onu per i diritti umani, con i quali tanti esperti hanno messo in guardia anche dal rischio di incidenti catastrofici, che vanno dalle convulsioni violente alla sopravvivenza in uno stato vegetativo, e persino dalla possibilità che il gas fuoriesca dalla maschera e uccida altre persone nella stanza. Smith certamente a 20 anni uccise una donna, su commissione del marito reverendo che voleva riscuotere il premio dell’assicurazione per coprire i suoi debiti, ma venne condannato a morte solo perché il giudice aveva modificato la decisione della giuria, che aveva chiesto l’ergastolo, una prassi, questa di consentire ai giudici di prevalere sulle giurie, non più consentita dal 2017, ma senza retroattività. Altrettanto vero, però, è che un assassino ha passato più della metà della propria vita in carcere senza alcuno scopo o funzione sociale, ma solo nell’attesa di essere ucciso per via di un paradigma meccanicistico secondo il quale “al male, si risponde con il male”.
Forse di fronte a sistemi sociali così ripugnanti in cui non si capisce più chi è Caino e chi lo ha generato si dovrebbe definitivamente pensare di consegnare alla storia una pratica così inumana e senza senso, ma è evidente che il fatto che esistano degli uomini che oggi apporranno quella la maschera della morte umiliante e dolorosa a Kenneth Smith porta a domandarsi cosa, per citare Gregory David Roberts, sia più spaventoso: se il potere che ci schiaccia o la nostra infinita capacità di sopportarlo.