Questa tornata elettorale aveva un finale già scritto, lo sapevamo. E no, non sono bastati gli scioperi, le mobilitazioni oceaniche per la Palestina, la rabbia contro un governo sempre più autoritario e lontano dalla vita vera delle persone. Chi sperava che tutto questo potesse portare Tridico, o il centrosinistra in generale, a una vittoria, oggi deve fare i conti con la realtà. Una speranza legittima, certo. Ma non bastano le speranze, soprattutto quando mancano idee chiare e scelte drastiche di rottura con una vecchia classe politica che ha distrutto pezzo per pezzo la Calabria.

La verità? Un considerevole pezzo di centrosinistra, quello legato ai salotti e alle passerelle ha completamente perso contatto con le persone. Non è nelle piazze, non è nei quartieri, non ascolta chi non arriva a fine mese né chi scende in strada per dire basta alla distruzione del servizio sanitario pubblico o a un massacro in Palestina che va avanti da più di 70 anni.

Anzi, l’establishment del centrosinistra quelle piazze ha cercato prima di delegittimarle, di svuotarle di senso, e in un secondo momento, quando sono diventate di massa, ha provato inutilmente a intestarsele. La Flotilla, le piazze piene di queste settimane, sono patrimonio di tutto il Paese, una sollevazione le cui motivazioni sono maggioritarie tra la gente e che superano i partiti, travalicando spesso la divisione centrodestra- centrosinistra.

Chi pensa, infatti, che i diecimila di Cosenza o il milione di Roma possano trasformarsi automaticamente e facilmente in altrettanti voti per il campo largo, delle mobilitazioni di queste settimane non ha capito niente: né del loro significato politico, né della forza e della determinazione di chi è sceso in piazza. Quelle piazze sono un grido di dignità, di rabbia, di fame di giustizia sociale, ma, soprattutto, del dilagante e urgente bisogno di vivere in un mondo radicalmente diverso. La forza di queste mobilitazioni sta nella chiara volontà, espressa da milioni di persone, di tornare a una politica concreta, fatta di organizzazione collettiva, rivendicazioni, socialità, conflitto.
Il fatto che nella regione più povera del Sud Italia, in tanti abbiano incrociato le braccia in un sciopero nazionale di portata storica, che anche nei paesi più sperduti si siano attivati presidi e cortei, che siano state bloccate autostrade, che ci si sia coordinati in azioni di protesta costanti e si sia viaggiato insieme, in tantissimi, fino a Roma, è qualcosa a cui non eravamo più abituati.

Non possiamo derubricare questo fenomeno a mera indignazione. In quelle piazze abbiamo parlato di diritti, di sanità, di trasporti, di scuola. Abbiamo parlato delle nostre vite. Di tutto quello che non accettiamo più: né i genocidi, né i morti di malasanità, né la precarietà, né i miliardi destinati al riarmo mentre la gente muore nei pronto soccorso o rinuncia definitivamente a curarsi.

Tornando alle elezioni calabresi, un altro tema, emerso subito dopo la chiusura delle urne e al centro dei primi commenti, è stato quello della scarsa affluenza, leggermente inferiore rispetto al 2021. La retorica del calabrese che non va a votare perché non gli importa nulla di ciò che gli accade intorno sta assumendo, però, i tratti dell’ennesimo e sottile atto d’accusa discriminatorio, una colpevolizzazione a priori frutto anche di un certo razzismo antimeridionale.

Per ribaltare questa narrazione negativa largamente dominante, che molti meridionali hanno ormai interiorizzato e accettato, il focus andrebbe spostato sulle cause di questa disaffezione invece di colpevolizzare i cittadini. Il leitmotiv è più o meno sempre lo stesso: la denuncia di una presunta eccezionalità dei calabresi, che non vanno a votare per apatia e disinteresse nei confronti delle sorti della propria terra. Non riteniamo, ovviamente, sia così. Sarebbe troppo comodo.
E allora facciamo chiarezza. Innanzitutto sui dati. In Calabria gli aventi diritto al voto sono 1.888.368, in questa tornata ha votato il 43,2%. Ma quanti sono gli elettori effettivi? ? Il dato deve infatti tenere conto dei residenti all’estero, impossibilitati a votare alle regionali (possono farlo invece alle politiche e ai referendum). E i calabresi iscritti all’AIRE sono circa 410.000. Quindi se teniamo conto di questi dati, l’affluenza reale sale di molto, attestandosi intorno al 55%.

Ma anche al netto di tutto questo il dato resta drammatico: una persona su due non vota. E non per pigrizia, indifferenza o ignavia. È perché sa che chiunque vinca non cambierà nulla. Perché ha visto chiudere ospedali, scuole, servizi. Perché ha visto centrodestra e centrosinistra gestire la cosa pubblica come se fosse roba loro, tra clientele, promesse e favoritismi.

La gente non è stupida. Semplicemente non sopporta più di farsi prendere in giro. È stanca, sfinita da una quotidianità in cui ogni piccola cosa costa mille sacrifici e in cui non si intravede mai un momento di pace, né un briciolo di benessere. Ma se da un lato c’è una classe politica, di centrodestra e di centrosinistra, che evidentemente ha come unico orizzonte il proprio ombelico, dall’altro ci sono migliaia e migliaia di calabresi, qui e altrove, che hanno dato dei segnali concreti di impegno e mobilitazione, di proposte e nuove pratiche. I Calabresi che pretendono risposte.

Pensiamo che siano i territori e i tantissimi bisogni delle persone che bisogna mettere al centro, perché si è stanchi di dover elemosinare favori ai candidati di turno per vedere riconosciuti i diritti basilari, che si tratti di un alloggio, di un lavoro o anche soltanto della possibilità di fare la spesa o ottenere la promessa di una visita specialistica.

Bisogna concentrarsi sulle necessità e i desideri di chi ha smesso di curarsi perché in Calabria semplicemente non è possibile o perché non ha i soldi per farlo altrove, di chi non ne può più del lavoro nero, sottopagato e sfruttato, o del ricatto costante, quello sì endemico, dell’emigrazione.
E allora, cosa fare? Continuare a rimanere passivi spettatori di queste costanti sceneggiate, o provare a invertire la rotta?

Viviamo in una terra che pare bloccata in un immediato dopoguerra, senza averla mai combattuta, una guerra. Ed è proprio nella ricostruzione di spazi di partecipazione ampia, di obiettivi chiari e pratiche di massa che si costruisce il terreno per rilanciare la battaglia contro chi si illude di aver stravinto questa competizione elettorale e contro chi, nel campo opposto, continua a non comprendere le ragioni della sconfitta. Entrambi, negli ultimi decenni, hanno condiviso un’unica agenda politica: quella che ha perpetuato disuguaglianze, precarietà e abbandono dei territori.

È il momento di non perdere la speranza, di costruire finalmente una possibilità concreta di trasformazione anche e soprattutto a queste latitudini. Le piazze piene delle ultime settimane ci hanno indicato la strada, un’energia e una potenza collettiva che abbiamo la responsabilità di alimentare. Vincere la rassegnazione, costruire l’alternativa!
La Base – Cosenza