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di Chiara Penna*
Il 12 giugno voterò cinque sì. Si sente dire da più parti che il referendum non sia lo strumento più idoneo per riformare una materia delicata come quella della giustizia. In realtà il referendum è uno stimolo a che il Parlamento intervenga a colmare gli eventuali vuoti che verranno a crearsi.
La riforma in discussione, infatti, sebbene per tanti aspetti migliorativa rispetto ai danni della gestione Bonafede, è purtroppo frutto di un lavoro di mediazione fra garantismo liberale e giustizialismo populista. Tra le altre cose, non concordo con chi ritiene che i quesiti siano complessi da comprendere. Anzi.
Venendo al primo, infatti, sul decreto legislativo Severino, votando “sì” è eliminato l’automatismo di sanzioni gravi come decadenza ed ineleggibilità per candidati ed eletti nelle varie cariche istituzionali di livello centrale e locale. Per gli eletti negli enti territoriali con la norma in vigore, del resto, scatta la sospensione dalla carica prima della sentenza definitiva. Pertanto, ritengo che ad un automatismo sia da preferire la decisione di un Giudice caso per caso.
Il secondo quesito è sulle misure cautelari, ovvero su quei provvedimenti che prevedono una limitazione della libertà personale indipendentemente da un accertamento processuale della responsabilità penale. Come è noto la libertà personale è inviolabile per la nostra Costituzione salvo atto motivato del Giudice e nei casi e modi previsti dalla legge. Sinora, però, l’atto può essere motivato con un fatto indimostrabile: la futura commissione di reati della stessa specie di quello per cui si procede. Il referendum eliminerebbe dunque questa possibilità, consentendo le misure cautelari solo nei casi più gravi e tipicamente individuati quali l’inquinamento probatorio, il pericolo di fuga, o quelli della commissione di gravi delitti di criminalità organizzata o con uso di armi o altri mezzi di violenza personale.
Il terzo quesito affronta invece la separazione delle funzioni dei magistrati e ritengo giusto, dato che in Italia dal 1988 vige il rito processuale accusatorio che prevede (sulla carta) la parità tra la procura e il difensore dinanzi ad un giudice terzo e imparziale, che non ci sia promiscuità fra Pubblici ministeri e Giudicanti. Non comprendo, infatti, come nel nostro Paese sia semplice scegliere se essere l’avvocato o il Giudice, mentre decidere a monte se fare il PM o il Giudice diventa argomento quasi non affrontabile. Questo sarebbe tuttavia solo un primo passo perché l’obiettivo di una vera autonomia del Giudicante si avrà separando le carriere e non solo le funzioni.
Il quarto sì è invece motivato dal fatto che considero iniqua la legge del 2006 che impedisce ai membri laici come avvocati o professori universitari di partecipare attivamente agli organi ove si valutano i magistrati. Non vedo la stranezza, visto che i magistrati fanno da sempre parte delle commissioni di esame degli avvocati.
L’ultimo quesito concerne, infine, la possibilità ai magistrati di candidarsi al CSM senza firme di presentatori. Adesso ne occorrono almeno 25 e con la vittoria del sì ogni magistrato che lo volesse si potrebbe candidare. L’intento è limitare il potere delle correnti che potrebbero condizionare il sostegno a futuri scambi di favore.
Purtroppo resta il rammarico per l’esclusione del quesito più incisivo e più sentito dall’elettorato, anche perché già oggetto di analoga consultazione nel 1987. All’epoca sulla scia del caso Tortora, i sì raggiunsero quasi 21 milioni di voti. Si tratta del quesito sulla responsabilità civile dei magistrati.
Da allora, purtroppo, nonostante le leggi che si sono succedute tra l’1988 e il 2015 la responsabilità è solo indiretta ed i cittadini possono agire civilmente contro lo Stato ma non contro il magistrato che sbaglia. Speriamo ad ogni modo si raggiunga il quorum perché i temi trattati riguardano tutti e mi auguro che, quanto meno, la parola medesima “giustizia” agisca da richiamo. (*avvocato penalista e consigliere comunale di Cosenza)