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Eccellenza, inizio questa mia, forse irrituale ma sicuramente sentita, partendo da due confidenze personali e sincere. Molto probabilmente avrei vergato le stesse considerazioni a prescindere da chi sarebbe divenuto il nostro nuovo arcivescovo metropolita. Persona fisica e categoria giuridica di persone fisiche, soprattutto nel diritto della Chiesa, sono due questioni non sovrapponibili: uomini e ministeri si “incrociano” nell’ecclesia ma il loro ruolo non si esaurisce in quell’incrocio.
Arrivo poi all’interesse per la legge canonica molto casualmente, negli anni di dottorato, appassionandomi di diritto civile e dottrina dello Stato. Il canonico è in Europa base importante di entrambi: recupera al diritto vivente, per secoli, la scienza romanistica, caricandola di valori nuovi o rinnovati (carità, misericordia, equità); le dispute tra papato e impero sono decisive per la nascita del diritto pubblico europeo e dei suoi concetti base (giurisdizione, sovranità, distinzione degli ordini e separazione dei poteri).
Non posso non dirmi rispettosamente ammirato e convintamente attento rispetto al Suo percorso di studi e di uffici. Lei si è formato al Pontificio Collegio di Anagni: Anagni, la terra dei papi che elogiano gli storici francesi Le Bras e Le Goff. Ha intessuto proficui rapporti dialettici con la bioetica laica e secolare che, non munita del dono della fede, per ciò solo non rinuncia alla domanda di valori guidanti. E si è occupato pure di educazione, istruzione, infanzia e formazione: un paniere di situazioni complesse, che non si limitano alla scolarizzazione (non più almeno), ma che interrogano famiglia, istituzioni, mondo del lavoro, coesione sociale, nuovi media.
Il Suo libro, “Omelia per gli invisibili”, meditato diario pastorale nell’esperienza di una terra quale quella foggiana, interessata a recrudescenze e più aggressive metastasi della violenza mafiosa e dello sfruttamento migratorio, è stato per me formativo, importante, basato su un’intuizione cristallina: se la Parola non si rivolge all’oscuro portandolo carismaticamente in luce, la Parola nel secolo odierno disperde possibilità di significato.
Per tali ragioni, mi sento di augurarLe buon lavoro – come oggi si usa dire ai Vescovi, in un mondo che ha confuso spirito e materia dopo averli per secoli messi in contraddizioni artificiose – con la contentezza che nella diocesi ci sia un Pastore che viene da questo percorso, da questi interessi, da queste battaglie (di fede, certo, ma di libertà, di civiltà, prima e dopo il fatto di fede). I massi più pesanti si spostano col sorriso. Nella mia città, è sempre esistito un cristianesimo sociale (cristiano, ecumenicamente, sento di definirlo) che, senza per forza aderire alle sigle più cospicue dell’associazionismo cattolico, sebbene sovente meritorie, è spesso stato un vero e proprio caminetto per la difficile vita di quartiere.
Tempo addietro lessi l’articolo di un giornalista che parlava delle Chiese romane aperte a Ferragosto: zona libera, per senzatetto stravolti dal caldo, turisti, residenti non in vacanza. Terre di incontri che gorgogliavano la parola della vita in una città semivuota. Capisco bene cosa abbia provato quel giornalista: capito spesso a Roma in agosto, avverto anche io quella magia. La vorremmo così, la Chiesa cittadina. Ecumenica, peraltro, lo è naturalmente, vettore pacifico e operoso di contatti: ricordo le marce per la pace con i greci ortodossi e le associazioni buddhiste.
Conosciamo i fedeli delle altre Chiese ortodosse (rumene, russe, bulgare, ucraine), ormai numerosi in città. Abbiamo potuto imparare l’impegno della Tavola valdese per la ricerca, l’istruzione, l’università. Siamo stati insieme alle giornate delle preghiere e del dialogo tra musulmani e cattolici. Sotto il sangue e le lacrime nei giorni degli attentati, nelle feste e nelle mense dell’accoglienza per i migranti delle barche, delle fiere, del lavoro stagionale. So, per un principio di realtà e non per artefatto trabocco di falsa modestia, che queste cose Lei assai meglio di me conosce. E allora faccio che ricordandole a me le indirizzo anche a Lei.
Questa Cosenza che pure tra i laici è innamorata della sua pietà popolare: la Madonna del Pilastro portata a spalla per quando vittoriosa salvò, secondo il racconto, dalla pestilenza; gli ottocento anni della nostra Cattedrale. Commemorati in lungo e in largo da autorità ecclesiastiche e civili, anche con momenti di densa profondità, e che forse avremmo ancor più amato allargati al vissuto di quartiere di cui il Duomo è silenzioso testimone, simbolo e amico. Questo, poi, vorremmo credo tutti: Chiesa salda perché di porte aperte.