Tra wifi che «non prende» e bar che aprono alle 9 l’altopiano resta unico, ricco di boschi, laghi e fauna rara, ma frenato da strutture datate, accoglienza carente e mentalità ferma a decenni fa. Eppure il suo fascino è intatto
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La Sila va capita! È da almeno trent’anni che sento ripetere questo ritornello dai miei concittadini. Lo pronunciano con quella sicumera di chi possiede una verità rivelata, salvo poi tradirsi quando gli chiedi cosa ci sia davvero da capire. Balbettano qualcosa sulla natura incontaminata, sui boschi secolari, sull’aria tra le più pure d’Europa. Ma alla fine la verità emerge sempre, prosaica e imbarazzante: vanno in Sila per mangiare. Una braciola e due funghi porcini, ecco svelato il grande mistero dell’altopiano. Più di trent’anni di pellegrinaggi domenicali ridotti a una scorpacciata in quota.
Eppure c’è stato un tempo in cui la Sila significava altro. Un tempo in cui noi calabresi ci credevamo davvero, quando avevamo tre case come i milanesi: una in città, una al mare e una in montagna. Era il nostro piccolo miracolo economico, la nostra Cortina a mezz’ora da Cosenza.
Il paradiso a portata di mano
La Sila è un altopiano che si estende per 150.000 ettari nel cuore della Calabria, un’isola verde sospesa tra i due mari. I greci la chiamavano Silva Brutia, la foresta dei Bruzi, per l’immensità dei suoi boschi secolari. È divisa in tre parti – Sila Grande, Piccola e Greca – come una matrioska geografica che nasconde tesori diversi in ogni piega del territorio.
Qui crescono i pini larici monumentali, patriarchi verdi che sfidano i secoli con tronchi larghi come automobili. Il Parco Nazionale, istituito nel 1997, custodisce una biodiversità unica: lupi appenninici che si aggirano silenziosi tra le faggete, caprioli che attraversano i sentieri all’alba, il rarissimo driomio – un coleottero che vive solo qui e da nessun’altra parte al mondo.
I laghi artificiali – Cecita, Arvo, Ampollino – sono specchi d’acqua incastonati tra i boschi come gemme azzurre. D’estate riflettono il cielo terso, d’inverno si ghiacciano ai bordi creando paesaggi nordici. Lungo le loro sponde si snodano sentieri che attraversano foreste di faggi, abeti bianchi e castagni secolari. La natura qui ha una forza primordiale che ti entra nelle ossa.
Gli anni d’oro della neve
A fine febbraio del 1988, la trentottesima edizione del Festival di Sanremo veniva interrotta per un collegamento speciale con Calgary, in Canada. Erano in corso le Olimpiadi invernali e un giovane bolognese di 22 anni si stava giocando la finale nello slalom speciale: si chiamava Alberto Tomba. Quella sera milioni di spettatori assistevano in diretta al trionfo di un campione che vincendo tutto renderà lo sci lo sport più glamour del momento. L’Italia intera si innamorava della neve. E noi calabresi? Noi avevamo la Sila.
Camigliatello Silano e Lorica divennero improvvisamente Cortina e Saint Moritz. Le piste del Monte Curcio e di Botte Donato si riempivano di sciatori della domenica, code interminabili alle seggiovie, il rombo delle motoslitte che sfrecciavano tra i boschi innevati. I parcheggi traboccavano di Uno Turbo e Golf Gti. Si prenotava con mesi d’anticipo per un weekend sulla neve.
I ristoranti servivano patate, funghi porcini e cinghiale a prezzi da capogiro. Gli alberghi – il Sila, il Tasso, il Cristallo – erano sempre pieni. Si costruiva ovunque: residence, villette a schiera, seconde case che spuntavano come funghi dopo la pioggia. Chi poteva permetterselo comprava un pezzo di montagna. Era il boom economico all’italiana, declinato in salsa silana.
Il grande freddo
Poi qualcosa si è inceppato. Non all’improvviso, ma lentamente, inesorabilmente. Le domeniche sulla neve si sono diradate. Le seconde case sono diventate un peso. Le seggiovie hanno cominciato a cigolare, letteralmente e metaforicamente.
Oggi Camigliatello e Lorica appaiono come un paesaggio sospeso nel tempo. Ma non nel senso romantico del termine. È un tempo rappreso, cristallizzato negli anni Ottanta come un insetto nell’ambra. I bar espongono ancora le vecchie foto di quando i contadini passeggiavano a dorso di mulo. I menù sono dattiloscritti e plastificati, con i prezzi in lire cancellati a penna. I gestori – gli stessi di quarant'anni fa, solo più curvi e più grigi – ti servono con la stessa ritrosia di sempre, come se ti stessero facendo un favore. Ti servono il caffè con lo stesso mugugno di trent’anni fa, lo scontrino è un optional, il Pos una diavoleria moderna di cui diffidare. Il bagno è quello del 1982, con le piastrelle marroni e il rubinetto che perde.
Anche i figli, soprattutto quelli che non hanno mai abbandonato le proprie terre, gestiscono il ristorante ereditato dal padre con la stessa filosofia: tanto i turisti vengono lo stesso. Il menù non cambia dal 1995. Sempre quelle quattro cose: pasta al ragù di cinghiale, braciola di maiale, patate ‘mbacchiuse e funghi. Ma il conto, quello sì che si è aggiornato: prezzi da Courmayeur per un servizio da osteria di provincia che serve prodotti (buonissimi), ma cari, benché a chilometro zero.
Le strutture ricettive sono ferme a quando il massimo del comfort era la tv a colori e il bagno in camera. Wifi? «Qua non prende». Colazione? «Il bar apre alle nove». Informazioni turistiche? «Che volete sapere? C'è il lago, c'è il bosco». L’accoglienza è un concetto alieno, l’ospitalità un peso da sopportare con rassegnazione, almeno per due mesi all’anno.
La montagna che resiste
Eppure la Sila resiste. Resiste nonostante tutto, nonostante tutti. Perché la sua bellezza è più forte dell’incuria, più tenace dell’abbandono. I boschi continuano a vestirsi d’oro in autunno, la neve continua a imbiancare i pini larici, i lupi continuano a ululare nelle notti di luna piena.
Ma è una bellezza mesta, malinconica. Come quelle belle donne invecchiate che non si rassegnano al passare del tempo e continuano a truccarsi con il rossetto di trent’anni prima.
La Sila è così: magnifica e negletta, superba e dimenticata, con un potenziale turistico enorme soffocato da una gestione che sa di vecchio, di stantio, di rassegnato. Se così non fosse, le strade del corso di Camigliatello sarebbero lastricate d’oro.
I giovani che hanno studiato fuori tornano con idee nuove ma si scontrano con il muro di gomma del “si è sempre fatto così”. Qualcuno ci prova: apre un B&B moderno, propone escursioni innovative, tenta di portare un po' di contemporaneità. Ma sono gocce nel mare dell’immobilismo.
Eppure, durante queste vacanze estive, ho capito che la Sila è come certi amori tormentati: ti dà tutto e ti toglie tutto. Ti mostra la bellezza assoluta e poi te la nega con l’ottusità della gestione. Ti fa innamorare e poi ti respinge con la sua arretratezza.
Ho capito che finché i vecchi padroni continueranno a gestire bar e ristoranti come se fossero ancora negli anni Ottanta, finché l’accoglienza sarà considerata un disturbo e non una risorsa, finché si penserà che “tanto i turisti vengono lo stesso”, la Sila resterà una promessa non mantenuta.
Ma ho capito anche un’altra cosa. Che nonostante tutto, io continuerò a tornare. Perché quando il sole tramonta dietro i pini larici e la neve diventa rosa, quando il silenzio del bosco ti avvolge come una coperta, quando respiri quell'aria che sa di resina e di pulito, allora capisci che la Sila non ha bisogno di noi. Siamo noi ad aver bisogno di lei.
E forse è proprio questo il problema. La Sila è talmente bella che perdona tutto. Anche la nostra incapacità di essere all’altezza della sua grandezza.