L’importanza di essere di “sopra” era incastonata nel colletto alzato con un tocco di pollici. Stava su la camicia azzurrina (che spuntava sotto il maglione di filo rosso scuro o blu, d’ordinanza); stava su la polo Lacoste, infilata nelle giacche di renna color biscotto, ma solo in primavera. L’appartenenza territoriale riposava anche nelle pieghe delle scuse non richieste da chi non ci poteva andare, su: «Vado “sotto”, a Rende, perché è vicina»; «Vado “sotto” perché è comodo», «Vado “sotto” perché i miei il motorino non me lo comprano e l’abbonamento Atac costa troppo».

Tra gli anni 80 e 90, il progresso spingeva sui bordi nuovi di un’area in espansione che aveva fame di mettersi al passo con la città centrale. Cosenza e Rende si fronteggiavano, ma fu la prima a chiedere una mano per far fronte alle iscrizioni in massa del Telesio, e l’altra vide l’occasione giusta per prendersi spazi a cui, forse, non era preparata davvero.

Se eri di giù, del liceo Telesio di Rende, anche se a agli altri “di sopra” ti legava il circonflesso, l’aoristo, il ritmo degli endecasillabi e la promessa di una vita di ragionamento, logica, lingue morte, ti pervadeva un senso di inadeguata appartenenza, di qualcosa che ti sarebbe mancato a vita. Eri figlio di un dio minore, che dall’Olimpo t’aveva mandato a raccogliere spinaci a Tebe. Il “Brancati” ti avrebbe messo come una nota a margine tra le diramazioni del Tigri e dell’Eufrate o, peggio, in un asterisco del Rocci.

Tra i Barbour e le Rover (e niente hastag)

Al sabato i più grandi s’arrischiavano con i mezzi al Ranch, o al Puerto Seguro. Posti che sembravano ai senza-patente, lontani come la Corea. Alla “Casa del gelato” o da Black Orchid, dopo il “Messicano” (iconico super-piastrato con salame piccante, pesto e formaggio), o una pizza da Casablanca o alla Sfinge, le frange d’appartenenza studentesca si dividevano le zone creando gli aloni della differenza telesiana (evidenti già nel vestiario).

Quelli di “sopra”, lanciarono tendenze dai marciapiedi di via Alimena che attingevano dal britannico rivisitato: il Barbour verde ne era il simbolo e il suo odore di grasso aromatico, la scia che ne segnava il territorio, la Rover color sottobosco, il mezzo prediletto per chi era già patentato. Le ragazze nel ’92 erano tutte foulardiste, con le sete annodate al collo, à la PanAm, o ai manici delle Furla lucide da cui si intravedevano i motivi con le ancore. In testa i ragazzi andavano per l’arruffo Oasis, un out of bed studiatissimo, le ragazze sfoggiavano tutte i carrè con le punte girate all’insù dalle spazzole tonde dei due parrucchieri più prenotati (che come un gioiello, ci si tramandava di madre in figlia): Rocco e Gianni.

Gli alternativi, i telesiani de sinistra, si distinguevano per le kefiah e le felpe degli ultrà (con foglia a sette punte bene in vista) e segnavano il passo con cani al guinzaglio e discorsi di politica acerba e curva Sud. Non c’erano hastag da anteporre per promuovere le scuole, la viralità era solo quella che ci si augurava di beccare per saltare l’interrogazione di latino.

Chi era su e chi era giù, vite parallele

La scuola più à la page stava arroccata in alto a fissare il castello, le variazioni di mattoni del centro storico, i vicoli in cui infilarsi quando si tirava filone per comprare una borsa di tela o uno di quei pendenti, in cui mettere il profumo, che si annerivano il tempo di fare lo scontrino.

L’odore di umido del ciottolato, le lenzuola stese accanto agli striscioni rossoblù messi ad asciugare su piazza Piccola, erano schegge di un mondo diverso, completamente, rispetto alla città nuova, Rende, che prendeva forma nella modernità degli spazi e aveva un Parco nuovo, alberi appena piantati e palazzi con le facciate rosa o a mattoni.

Dal centro storico arrivavano giù racconti di meraviglie: il bar fisso gestito da Luigi, che concedeva credito agli studenti senza liquidi; un auditorium enorme per assemblee e concerti; la parte dell’Europeo dove crescere generazioni destinate a infinite estati nei college di Londra e dintorni. Anche la scomodità dell’Atac da prendere, gli infiniti gradini brevi e scivolosi che conducevano all’ingresso della scuola, erano atti soddisfacenti, gratificanti, mentre il fiato si faceva corto per la sporta di Invicta caricata sulle spalle aspettando Lalla all’uscita per un saluto.

La montagna di Maometto oltrepassa il Campagnano

Negli anni Novanta, dopo la rivoluzione divenne necessario il consolidamento. Ormai la scuola più importante di Cosenza s’era avvicinata come quel Maometto che non va alla montagna. Ma non era il massiccio ad essersi approssimato, erano Seneca, le Termopili, gli achei e Sparta che, distaccati dal monopolio del Telesio vecchio, divennero democraticamente pret-à-porter.

In realtà il liceo classico Telesio di Rende, ebbe vita breve e nomade, con insegnanti pescati all’improvviso da graduatorie fluide, che turnavano tra sezioni, alcune monche, prima di trovare una sede e un nome nuovo.

Le proteste e il calcio

Ma se gli animi delle due scuole, restavano sempre diversi e distanti, c’erano due periodi dell’anno in cui tutto cambiava: le partite di pallone e le proteste.

Il derby tra classico di Rende e quello di Cosenza si disputava allo stadio Lorenzon o al vecchio “Emilio Morrone” (ora Marca) e le cronache finivano incolonnate nei resoconti del giornalino, con tanto di foto. Ma il Telesio “di sopra”, che voleva essere sempre un passo in avanti, partecipava a ben altri gironi d’elite, scontrandosi con il glorioso Cosenza calcio 1914 (memorabili le sfide nel ‘94 e ‘95 al San Vito e nel 2001 con la Primavera dei Lupi allenata da Gigi Marulla).

Occupiamo o no? Occupiamo sì o no?

Nell’autunno che tirava verso l’inverno, la scossa del ministro seduto sulla poltrona impunturata di rame, dava lo slancio per cementare la fratellanza a corrente alternata. Contro un nemico comune si univano gli spiriti di due scuole divise da pochi chilometri che parevano anni luce. Trait d’union della battaglia il nome del preside unico, Ciacco, una sorta di Mago di Oz nascosto dietro il paravento, vissuto nel centro storico come il sovrano, e nella filiale come il colono che mai si vedeva ma che sorvegliava e, nei tumulti, spediva la Digos e ordinava di cancellare le scritte a spray dai muri.

Al liceo di “sopra”, quello grande, grandi cose si immaginavano facessero i compagni impegnati nelle occupazioni e autogestioni, seduti sui sellini degli Sh50 parcheggiati in massa con le catene attaccate. “Sotto”, a Rende, nel cortile ombreggiato da un cipresso che è ancora lì, gli angoli del rettangolo di cemento blu e bianco sapevano solo di Amadis e Diana Rosse smezzate in tre prima che il bidello Ciccio unghia-lunga, chiamasse tutti in classe o «nelle gabbie» come piaceva dire a lui. Oltre il Campagnano, la figlia illegittima riconosciuta senza onori ed eredità, che portava il cognome di un padre importante che si era dato troppo da fare in giro, affrontava le iscrizioni in crescita smistando sempre più classi al Cud che divenne la filiale della filiale.

C’eravamo tanto odiati

La concorrenza trovava sfogo nel “Telesio News”, il giornalino della scuola, quasi esclusivo appannaggio degli alunni legittimi di primo nome, i cardiganisti di professione, quelli che le insegnanti storiche con nomi che facevano tremare anche la facciata del Rendano, coccolavano per poi fucilare con la terza declinazione in classe e la metrica giambica. Gli alunni di “sopra” gestivano con le loro insegnanti gli spazi più importanti, mentre per far arrivare in colonna un pezzo da “sotto”, occorreva un’anima gentile di docente che si prendesse la briga di faxare l’articolo e fare una telefonata in più o un amore tra redattori e deskista.

Le strade dei parenti diversi, si spaccarono del tutto quando Rende decise di cambiar cognome, staccando il filo della famigliarità con la Cosenza alta, e scegliendo Gioacchino da Fiore come nuovo tutore, lasciando il passato indietro ed entrando a passo svelto negli anni Duemila. I vecchi studenti conservano nel cassetto il diploma con la vecchia intestazione sentendosi un popolo di confine, un po’ come se si avesse una moneta rara perché frutto di un errore di conio.

La diaspora universitaria tra Roma e Perugia

Entrambi i figli diversi, i telesiani di “sotto” e quelli di “sopra”, rimasero indifferenti ai cambiamenti anche perché i vecchi diplomati, i “grandi” delle quinte, ormai erano volati nelle sedi sognate: a studiare giuriprudenza a Roma, infoltendo Piazza Bologna in case in affitto o acquistate con i soldi messi da parte dai genitori per “investimento”, a Perugia (meglio se si aveva un genitore medico per usufruire del vitto e alloggio all’Onaosi), a Bologna per chi sentiva uno spirito artistico infuocargli le vene, pochi a Milano e il resto ad Arcavacata tra le classi scientifiche ed economiche in attesa di migrare quanto prima. Dietro a una cancellata, un portone, una rampa di pietra, resta ferma e simile a tutti, da sopra a sotto, la memoria della strizza dei quattordici anni da matricole, i sedici anni dell’adattamento, la circonvallazione dei diciotto (con doppia curva stretta) per capire il bilanciamento e non solo di frizione-acceleratore. Allora era tutto un gioco, la scuola, la ricreazione, l’occupazione. C’era la cancellata dietro e tutta la vita davanti.