De Paola: «Le braciole con Marulla e Negri. Io guerriero di un calcio che non c’è più»
L’ex mediano del Cosenza si racconta: «Nel tunnel del San Vito succedeva di tutto, altro che pasticcini agli avversari. Per fare il calciatore servono le cicatrici sul corpo». Luciano De Paola incarna tutto ciò che un tifoso vorrebbe da un calciatore della propria squadra: carisma, leadership, cattiveria agonistica e concretezza. Ancora oggi, a distanza di
L’ex mediano del Cosenza si racconta: «Nel tunnel del San Vito succedeva di tutto, altro che pasticcini agli avversari. Per fare il calciatore servono le cicatrici sul corpo».
Luciano De Paola incarna tutto ciò che un tifoso vorrebbe da un calciatore della propria squadra: carisma, leadership, cattiveria agonistica e concretezza. Ancora oggi, a distanza di vent’anni, quando il centrocampo del Cosenza non mostra i muscoli, ogni tifoso rossoblù prende ad esempio quel medianaccio dai capelli lunghi arrivato in città secondo solo alla sua fama che ovviamente lo precedeva. E’ allenatore del Lumezzane, ma un giorno fu messo fuori rosa dal Cagliari perché zittì nientemeno che Enzo Francescoli, suo compagno di squadra.
De Paola, se lo ricorda?
«Eccome! Lo ricordo molto bene. Giocavamo a Lecce, una partita di Coppa Italia che perdemmo 5-1, fece 4 gol Mazinho. Ci fu un piccolo battibecco con Francescoli perché lui era appena arrivato in Italia e come tutti gli stranieri doveva abituarsi al nostro calcio. Non si era calato nella parte. Era troppo innamorato del pallone e spesso è capitato di perdere equilibri per questo motivo. Io ero un giocatore caratteriale e se dovevo dire qualcosa non mi tiravo mai indietro. In quel caso, però, mi è costata l’esclusione dalla rosa».
Di lei si dice che fosse il Gattuso della Serie B. E’ d’accordo?
«In quegli anni in Serie A, sotto la guida di Lucescu, sono entrato nella Top 11 davanti a giocatori come Rijkaard, Albertini e Ancelotti. Ero un giocatore cattivo, di equilibrio. Quando si iniziava a parlare di Gattuso mi dicevano che io ero molto più bravo e cattivo di lui. E queste sono le parole di un calciatore che stimo molto».
Lei fa l’allenatore da un po’ di tempo ed è diventato tecnico del Lumezzane: auguri. Che si aspetta?
«Ho fatto gavetta. Sono partito con le giovanile del Brescia, dove ho allenato Hamsik, Viviano Rispoli, Santacroce e tanti altri. Dopo ho fatto 4 mesi ad Arezzo e per alcune divergenze con la società sono stato esonerato. Ho fatto poi tanta Serie D. Due giorni fa ho avuto richieste da alcune squadre importanti di Serie D, ma poi mi ha chiamato Cavagna ed ho accettato. É una scelta importante perché dopo tanti anni si prova a ripartire dalla Lega Pro. Escluso Genevier, siamo una squadra molto giovane. Con un budget limitato punteremo ad una salvezza tranquilla».
C’è un ex calciatore del Cosenza, Rapisarda, che dice di lui?
«Rapisarda è un ottimo giocatore. É un elemento intelligente, che sa giocare a calcio. Ogni tanto si dimentica che è un terzino e si innamora della palla, ma è un atleta che mi piace molto ed è uno dei giocatori più rappresentativi della squadra».
A proposito di Cosenza, l’ultima volta è stato addirittura allo stadio.
«Da quando ho lasciato Cosenza sono ritornato due volte. La volta più toccante, ovviamente, è stato quando è venuto a mancare Gigi. Un grande giocatore, un grande amico. Eravamo molto legati quando eravamo compagni di squadra. Quest’anno sono venuto per salutare Cerri. A Piacenza è stato il mio secondo e, dato che d’estate sono a Crotone, mi è sembrato giusto passare a fare un saluto. È stata una rimpatriata molto bella».
I muri del San Vito ancora parlano di lei, lo sa?
«Tutti i muri dove ho giocato parlano di me – ride divertito – Non ci sono più giocatori con le mie caratteristiche, trascinatori che fanno gli interessi dell’allenatore, della squadra, della tifoseria. Io ero uno che se doveva andare contro qualcuno ci andavo e l’aneddoto del battibecco con Francescoli lo testimonia. Giocatori come me, come Gattuso, sono ben voluti dalla tifoseria perché stanno sempre sul pezzo e non mollano mai».
Le leggende narrano che nel tunnel degli spogliatoi non si offrisse il caffè agli avversari…
«Sono arrivato l’anno in cui c’è stato il passaggio da Lamacchia e Pagliuso. Ci furono problemi di fidejussione e quindi ci diedero la penalizzazione. Diciamo che a fine primo tempo agli avversari non gli offrivamo mai i pasticcini, ma era più probabile che succedeva qualcosa di più tosto. Eravamo una squadra che si doveva salvare e quindi dovevamo far capire subito che non era aria. Quell’anno lo ricordo particolarmente bene. C’era gente che si dava già per retrocessa. Io invece c’ho sempre creduto intimando loro che se non credevano nel progetto potevano anche andare a casa. Poi le cose per fortuna sono andate secondo le mia previsioni e abbiamo fatto un’impresa storica».
Capitò spesso che le bastava urlare contro i guardalinee per far loro segnalare degli off-side. Carisma o cosa?
«In alcune situazioni poteva anche accadere, ma non sempre. Gli arbitri di quel periodo erano di spessore. Erano sempre un po’ permalosi e di grande personalità e quindi, ahimè, non è andata sempre così. C’è da dire anche che non avevamo delle belle facce. Di Marzio diceva sempre che per giocare a calcio ci volevano le cicatrici e diciamo che quel gruppo ne era pieno».
Come si sfiora la Serie A con un -9 in campionato?
«Se la penalizzazione fosse arrivata ad inizio campionato sarebbe stato più semplice affrontare l’handicap, ma quando ti tolgono punti a metà campionato diventa tutto molto più difficile. Noi eravamo una squadra tosta, uno spogliatoio fatto di uomini, e per questo motivo siamo riusciti a centrare l’obiettivo nonostante tutto».
Lei è comunista, gli ultrà lo chiamavano “compagno De Paola”. Che rapporto aveva con loro, ricorda quel coro?
«Colgo l’occasione per puntualizzare. Io e la politica siamo due mondi paralleli. È successo questo episodio quando andai alla Lazio. Questa cosa successe due anni prima a Brescia nel ’90 dove in un’intervista mi chiesero quale fosse il mio orientamento politico. Io risposi che, venendo da una famiglia povera, i miei genitori votavano da quella parte. Però ti dico che erano anni che non votavo. Giocando fuori e avendo la residenza a Crotone mi veniva difficile. L’invenzione più bella fu fatta da un giornalista quando andai alla Lazio che pubblicò quell’intervista che io non feci. Lì fu il delirio perché appena arrivato trovai 50/60 ad insultarmi. È un peccato perché stavo bene, giocavo con grandi campioni però poi a gennaio, per questi problemi, andai via. Prima all’Atalanta e poi, per Di Marzio, sono venuto a Cosenza dove ho vissuto due anni fantastici lasciando un buon ricordo alla tifoseria e viceversa».
Perché oggi si trovano sempre meno mediani con le sue caratteristiche?
«Dico solo che quando giocavo io c’erano Iachini, Ancelotti, Albertini, Rijkaard, Dunga e Simeone. Oggi in quel ruolo fai fatica a trovare 2 o 3 ragazzi con quelle caratteristiche. Questo perché i tempi sono cambiati. Oggi il concetto di fatica non è presente nel vocabolario di molti calciatori, mentre noi la vivevamo quotidianamente. Anche se poi si andava in Serie A e si guadagnavano miliardi di lire però avevi fatto gavetta, c’era una cultura diversa, il calcio era più sentito, voluto. Molti di noi hanno vissuto la strada. Oggi è cambiato il modo di ragionare, il modo di fare, c’è la televisione e tutto diverso. Però quando uno vive in questo contesto deve essere abile ad adattarsi al cambiamento».
De Paola che allenatore è? A chi si ispira dei suoi vecchi tecnici?
«Ho avuto tanti allenatori bravi. Parlo di Reja, Lucescu, Zoff, Zaccheroni, Prandelli, Mutti. Diciamo che l’allenatore che mi ha insegnato tantissimo è Lucescu. E’ un insegnante di calcio. Lo sta facendo allo Shakhtar, lo ha fatto al Pisa e al Brescia. Ha una cultura del calcio che secondo me è 20 anni avanti».
Sta seguendo il campionato del Cosenza?
«Il Cosenza lo seguo perché è una squadra in cui ho giocato e perché è una città nella quale io e mia moglie avremmo voluto vivere. Poi, però, sono ritornato a Brescia ed è lì che ci siamo fermati definitivamente,. Mia moglie, però, era innamorata di Cosenza. Seguo la squadra anche perché c’è Cerri, con il quale ho un bellissimo rapporto».
Di lui che ci dice?
«Cerri è innanzitutto una persona preparata, è un uomo di calcio e di campo. Sono contento che sia venuto a Cosenza e che si trovi bene e soprattutto che abbia preso dei bei giocatori. Spero che faccia un ottimo campionato e arrivi ai playoff, magari che li vinca anche perché la piazza lo esige. Roselli è l’allenatore che può regalare questa gioia a tutti i tifosi.»
Che partita vorrebbe rigiocare con il Cosenza?
«Tutte le partite che abbiamo giocato le abbiamo giocate sempre con l’anima, anche se ovviamente nei derby si dà qualcosa in più. Sono quelle partite che ti fanno sentire sempre vivo. Ho giocato contro la Reggina, ma mai contro il Catanzaro perché gli anni in cui noi eravamo in B loro erano in serie C. Abbiamo disputato tante partite importanti contro l’ Udinese e l’Ascoli. Vorrei ritornare indietro per giocare con il bomber, Gigi Marulla. Era il giocatore che finalizzava tutto. Devo dire la verità: mi sono divertito molto con lui. Magari tornerei indietro per rivedere Kevin (Marulla) che gioca con mio figlio da bambino. Le serate in pizzeria… Pensare che oggi Gigi non ci sia più mi fa stare male».
Due anni al San Vito, avanti: faccia l’allenatore. Ci dica il suo undici ideale di quel biennio…
«Non voglio fare un torto a nessuno, in quegli anni abbiamo avuto fior di giocatori come Tatti e Lucarelli, Miceli in mezzo al campo, Paschetta, ma anche Marulla, Zunico, Monza, Compagno a sinistra, Gigi De Rosa. Stiamo parlando di giocatori veri che oggi potrebbero giocare in qualsiasi squadra».
Salvatore Miceli l’ha inventato lei possiamo dire…
«Parlando un giorno con Zaccheroni dissi: mister guardi che quel mediano là non è malvagio, non è bello da vedere, ma è uno che ringhia, ha carattere. Gli proposi di tenerlo in prima squadra anche perché in quel periodo eravamo un po’ in emergenza a centrocampo. Da allora si è allenato sempre con noi. Poi è andato via da Cosenza, ha seguito Novellino per tanti anni. Salvatore ha saputo aspettare il suo momento e quando è arrivato è stato bravo a coglierlo».
Zaccheroni o Mutti in panchina, chi sceglie?
«Sono due allenatori diversi, ma tutti e due bravi. Certo, con Zaccheroni abbiamo sfiorato la promozione in serie A. Con Mutti invece abbiamo raggiunto una salvezza tranquilla dopo il problema che c’era stato con Silipo. Comunque scelgo Zaccheroni».
Un giorno arrivò a bordo della sua moto e con la bandana in testa fin dentro gli spogliatoi. Perché?
«Perché era divertente. Anche Gigi aveva la moto. Eravamo una squadra di pazzi in quello spogliatoio. Eravamo gente che si divertiva. Questo era il calcio di una volta. Quando le cose in una squadra vanno bene è merito di tutti, dei massaggiatori, dei magazzinieri, di tutti gli addetti ai lavori».
Che altri ricordi ha?
«Delle braciole che ci andavamo a mangiare sotto al fiume. Non lo so se quel ristorante c’è ancora. Andavamo io, Marco Negri, Gigi. Finito l’allenamento ogni scusa era buona per trovarci tutti insieme. Litigavamo, ma eravamo molto legati».
Si immagini davvero allenatore del Cosenza: cosa direbbe ai suoi calciatori nel primo discorso?
«Sono un passionale e di solito il carattere di una persona influenza l’allenatore. Per uno come me che quella maglia l’ha vissuta e rispettata, la cosa più importante che direi è che bisogna soltanto entrare in campo con il massimo del ritegno e soprattutto che bisogna sudarla. Non si può uscire dal San Vito senza avere la maglia bagnata. Questa penso che sia la cosa più bella da dire a un gruppo di giocatori, che magari mettono piede la prima volta in quello stadio». (Francesco Pellicori)