giovedì,Settembre 12 2024

Il calvario di Alessia (malata Covid) tra cibo scadente e finestre decrepite

Da ospedale fantasma a centro Covid. L’insolito destino, toccato al “Santa Barbara” di Rogliano, fino a qualche anno fa, attivo in tutti i suoi reparti, ha costretto a un velocissimo cambio di rotta. Prima dell’emergenza, in Calabria la parola d’ordine era “chiusura”, ma l’emergenza Covid19 ha cambiato il ritornello nel settore sanità. Ora il diktat

Il calvario di Alessia (malata Covid) tra cibo scadente e finestre decrepite

Da ospedale fantasma a centro Covid. L’insolito destino, toccato al “Santa Barbara” di Rogliano, fino a qualche anno fa, attivo in tutti i suoi reparti, ha costretto a un velocissimo cambio di rotta. Prima dell’emergenza, in Calabria la parola d’ordine era “chiusura”, ma l’emergenza Covid19 ha cambiato il ritornello nel settore sanità. Ora il diktat è aprire. Anche se i presidi hanno ancora addosso la polvere degli anni di riposo, anche se le strutture, in alcuni tratti, cadono a pezzi. 

Da fuori, i pazienti sono numeri: positivi, negativi, infetti e guariti. Ogni sera diventano statistiche, a cui la gente, chiusa nelle case, si attacca per sperare e poter credere che l’incubo del contagio stia finendo. Ma nei numeri ci sono nomi, cognomi e storie.

Il video sulle condizioni strutturali del “Santa Barbara”

La storia di Alessia, da Corigliano Rossano al Trentino e… infine Rogliano

Questa è la storia di Alessia Alboresi. Calabrese d’adozione, emiliana di origine. Da 16 anni vive a Corigliano Rossano. Attivissima nel settore culturale, consigliere comunale dopo l’elezione del sindaco Flavio Stasi, e ora anche sopravvissuta.

Dopo 30 giorni di ricovero è tornata a casa. Sta bene. Le hanno detto che deve trascorrere ancora qualche settimana in quarantena volontaria. Per sicurezza. Nonostante due tamponi negativi e consecutivi, i medici non vogliono rischiare. Ma è dura, per lei, riprendersi del tutto, metabolizzare quello che è successo. Ancora, di notte, sente il fischio della caldaia dell’ospedale nelle orecchie, che non la fa dormire, i gemiti dei malati nelle altre stanze. La gioia per essere guarita, ancora non riesce ad oscurare del tutto, la paura che le ha fatto compagnia così a lungo.

L’incubo e l’Asp di Bolzano

Il suo incubo comincia il 10 marzo. Dopo una settimana trascorsa a Corvara, rientra a Corigliano Rossano e inizia ad avere sintomi. «Sono partita per il Nord la fine di febbraio, in Italia si parlava di un contagio ristretto nel Lodigiano, niente di più. Ho chiamato l’Asp di Bolzano e mi hanno rassicurata: “Potete venire tranquillamente, signora, da noi la situazione è sicura”. Prima di mettermi in viaggio ho chiamato il 118 di Rossano per segnalare il mio rientro, mi sono registrata sul sito della Regione e ho deciso di mettermi in quarantena volontaria, non volevo correre rischi».

Dopo pochi giorni dal suo ritorno, Alessia comincia a stare male. Prima un fortissimo mal di gola. Niente febbre, niente tosse. Il medico di famiglia le prescrive degli antibiotici, non le fanno effetto. Due giorni dopo non riesce nemmeno a parlare. Ha crisi respiratorie continue che neanche il cortisone riesce a migliorare. Chiama il 118, ma senza febbre o tosse, non possono intervenire e poi non hanno mezzi a disposizione, dicono. Si mette in macchina, sa che davanti all’ospedale di Rossano “Giannattasio” c’è una tenda per il pre-Triage. Ma alle otto e mezza di sera è chiusa, perché i volontari sono tornati a casa. Dopo un po’ esce un’infermiera che l’accompagna nella stanzetta, allestita per i casi sospetti, all’interno del Pronto Soccorso. Le fanno subito la Tac. Il risultato non lascia dubbi: polmonite interstiziale. Il giorno dopo le fanno il tampone. Positivo.

Da Corigliano Rossano a Rogliano: il calvario di Alessia

Trasferita a Cosenza, resta nel reparto di Malattie Infettive per quattro giorni e poi viene trasferita all’ospedale di Rogliano, che nel frattempo è stato riesumato come Centro Covid. Lì trascorrerà il resto della sua degenza, lottando contro la polmonite. Il suo fisico reagisce bene ai farmaci. Sul foglio di dimissioni vengono segnate le medicine che le hanno salvato la vita: Eparina, Plaquenil, Kaletra. Un cocktail di anti-virali usati per la cura anche dell’Hiv. Gli infermieri continuano a dirle che le stanno somministrando anche il Tocilizumab, l’anticorpo monoclonale usato per l’artrite reumatoide, ma di questo farmaco non c’è traccia nel suo foglio di via. Perde molto peso, i pasti serviti non sono proprio quelli ideali per rafforzare le difese del corpo: mele e arance quasi marce, formaggi, carne bollita. 

Le precarie condizioni strutturali dell’ospedale di Rogliano

Viene sistemata in una stanza con le tapparelle rotte, assicurate con lo scotch, da cui entrano spifferi gelidi; ci sono due termosifoni, uno non funziona. Penzolano fili elettrici dalle pareti. In bagno non c’è il bidet e la doccia è un tubo a cui è attaccata una gruccia di metallo con una fascia di plastica di fortuna, che rende impossibile lavarsi senza allagare tutto. Niente acqua calda, solo appena tiepida. L’interno sembra quello di un ospedale in una zona sotto bombardamenti. 

Dopo qualche settimana, senza febbre, le fanno i primi tamponi. Sta meglio, respira bene, ma il test dà ancora esito positivo. I dottori spiegano che il percorso sierologico e quello clinico, in questa malattia, spesso non combaciano. Aspetta. Anche alla sua compagna di stanza effettuano il tampone. Due negativi le danno la speranza di poter tornare a casa. Ma uno, dicono, è incerto perché sono finiti i reagenti e forse si è “seccato”. Gliene fanno un terzo: positivo. Niente dimissioni, solo attesa anche per lei. 

La guerra contro il virus, è anche una guerra psicologica. «Combatti contro la paura che da un momento all’altro possa ricominciare tutto: la febbre, l’affanno. Sono stata appesa al filo della speranza di un risultato» racconta Alessia. È dura, ma ce la fa. Qualche giorno fa il doppio esito, le valigie, il ritorno a casa. «Sono riconoscente nei confronti dei medici che mi hanno curata e di tutto il personale ospedaliero, ma non vorrei che finita l’emergenza, la situazione della sanità calabrese rimanga in questo stato».

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