martedì,Dicembre 10 2024

Il fuoco sotto la cenere

Ancora una volta sono gli ultrà a trovare le parole migliori per questo finale di stagione. Che la vittoria contro il Vicenza non diventi però l'ennesimo lavacro di responsabilità

Il fuoco sotto la cenere

Esistono, credo, due generi di padri. Quelli che, di fronte a un traguardo del figlio, gli dicono bravo e quelli che invece hai fatto il tuo dovere. Mio padre ha sempre fatto parte della seconda schiera. C’è stata una volta sola in cui mi sono sentito dire bravo ed è stato il giorno della mia laurea. Forse c’entrava il fatto che fosse già malato oppure che, per noi gente del Sud, il pezzo di carta conquistato fuori muoveva in selvaggia parata zii e catananni, pranzi a botte di amari e Calabrisella mia, insomma, quel tipo di riscatto e di orgoglio che spingeva dopo il 110 e lode di un figlio o di un nipote a pensare ce l’abbiamo fatta.

Diceva esattamente questo lo sguardo di mio padre quel giorno di quasi vent’anni fa, ultimo a fissare la mia commissione, mentre tutti uscivano dall’aula. Dicevano questo pure i miei occhi venerdì sera, dopo un’intera stagione in cui ho rinfacciato al Cosenza di non fare il proprio dovere. Ho invitato a disunirci mentre vedevo che andavamo a picco e accusato i nostri manovratori di essere come Schettino, quando osservavo come si imbastiva il mercato di gennaio. Ho addirittura smesso di scrivere, dopo la sconfitta col Parma, e mantenuto il voto fino all’ultimo (anche per scaramanzia, lo confesso). Torno a farlo perché, come il 31 luglio 2020 e come Lignano, credo che questa stagione possa insegnare qualcosa a tutti. Me compreso. Sempre che vi sia la voglia di imparare.

Nella nostra storia la salvezza al playout era un inedito assoluto. Lo spareggio di Pescara fu una gara secca, con il fantasma dei supplementari e rigori; venerdì, invece, partivamo dall’handicap di due risultati su tre a sfavore. Servivano nervi saldi e (perdonate il francesismo) due palle così. Cose che questa squadra, fino ad aprile, non aveva. La prima cosa che questa stagione ci insegna, dunque, è che l’allenatore è il chiodo a cui viene appeso il quadro di una squadra. Se il chiodo traballa, la cornice resta storta o viene giù.

Bisoli non è De Zerbi né Sarri, e lo sa pure lui, ma dal suo arrivo ha capito una cosa: questa formazione smarrita aveva bisogno di essere motivata in settimana e teleguidata in campo, senza troppi fronzoli e sovrastrutture tattiche. Lui ha saputo farlo, altri no. Fino a pescare il jolly di un meraviglioso Zilli (lui e Florenzi sì veri gioielli della Primavera), capace di mettere lo zampino nelle tre azioni più importanti di un finale di stagione al cardiopalmo (il rigore a Pisa, il gol al Cittadella e l’1-0 col Vicenza).

La seconda cosa che ci insegna questa stagione sta nell’undici titolare dell’ultima partita. Soltanto per cinque undicesimi abbiamo la certezza che saranno in rossoblù anche nel prossimo campionato. L’ho scritto più volte: il mercato estivo poteva avere delle giustificazioni, quello invernale no. Ndoj, Voca, Hristov, Laura sono stati errori che si dovevano evitare. Anche nel 2022/23 il Cosenza è costretto a ripartire da zero, o quasi (ci tornerò più avanti). E qui, ovviamente, non posso che fare ammenda anche dei miei errori.

Larrivey ormai è in nomination per il premio di Mbakogu d’Oro, sentenza del sottoscritto datata 21 febbraio 2022, è certamente il più marchiano. Dunque, dinanzi all’uomo che con una doppietta (e 8 reti in 17 partite) è stato decisivo per la salvezza, levo il cappello anch’io, ch’ero convinto di riconoscere nel suo ritardo di condizione le stesse tracce dei vari Petre e Trotta. È stato così fino alla sosta di fine marzo. Quando el Bati si è rimesso in forma, la sua presenza (compatibilmente con l’età e gli avversari che avevamo di fronte, va detto) si è vista eccome.

Bravo dunque anche Goretti a scommettere su un 37enne motivato mentre (purtroppo va detto) in molti rifiutavano Cosenza (e forse non senza ragioni: anche su questo conviene riflettere ora, a bocce ferme). Bravo pure a trovare in Camporese il perno giusto per una difesa traballante e in Liotti e Di Pardo due buoni esterni. Ma, per favore, che sia anche l’ultima volta che il Marulla viene ridotto a un porto di mare per marinai senza talento in cerca d’ingaggio (con tanti saluti a Kristoffersen, signora e affini).

Noi siamo il fuoco sotto la cenere, diceva infatti lo striscione in Curva Nord venerdì. E se c’è chi ha macinato chilometri senza lasciare mai sola questa squadra nemmeno nei momenti peggiori, è bastato il soffio di una finale playout per alimentare la fiamma di quasi ventimila persone. M’interessa poco il dibattito sui veri tifosi e gli occasionali: io passaporti allo stadio non sono abituato a chiederne. Quel ch’è certo è che lasciare cadere un’altra volta quest’entusiasmo sarebbe criminale.

E non solo per il colpo d’occhio del Marulla venerdì, ma anche per altro. Sarebbe criminale non costruire qualcosa sulla garra brevilinea da mezzala di nuciddra Florenzi e la solidità acrobatica da prima punta di Zilli: due ragazzi nostri, finalmente nostri, come in B non accadeva dai tempi di Morrone e Modesto. Sarebbe criminale non sfruttare Larrivey e il suo carisma da veterano, proprio come accadde (mi sia concesso nominare Dio invano) con Marulla dopo Pescara. Sarebbe criminale non appendere il quadro giusto a un chiodo come Bisoli, ovvero un altro tecnico capace di stabilire con la piazza una sintonia autentica: in poche parole, costruire una squadra all’altezza. Sarebbe criminale insomma considerare questa salvezza solo un traguardo anziché un punto di partenza.

Sarebbe pure criminale non dire bravi e, infatti, non commetterò l’errore di mio padre, ché il tempo è avaro e poi uno si pente sempre di ciò che non ha detto. Ma non ritratto una sola accusa e pretendo che questa salvezza non diventi un lavacro di responsabilità. Diciamocelo stavolta tutti bravi, ma nessuno dimentichi mai più cosa siamo stati la notte del 20 maggio 2022: una squadra accompagnata dal proprio allenatore a guardare molto oltre la propria asticella e spinta da una comunità intera a superarla. Ce l’abbiamo fatta: diciamolo pure anche in faccia a chi credeva che bastassero gli sghei e un gol annullato a Caso per fermare una piazza come questa. La provinciale ripescata, come ci chiamavano a inizio stagione, o le scimmie, come ha provato a offenderci un pischelletto al quale abbiamo dato persino troppa importanza. This monkey’s gone to heaven, come cantavano i Pixies. E ora nessuno si azzardi più a far posare la cenere su questo fuoco.