mercoledì,Maggio 15 2024

Ha 20 anni e la sindrome di Down, la madre: «Costretto a stare sempre solo perché manca l’assistenza»

Antonio fa terapia tre volte a settimana, ma non riesce ad avere alcun contatto con il mondo esterno. Da Tortora si leva un grido d'aiuto: «Non chiedo la luna, solo che a mio figlio venga riconosciuto il diritto di vivere la sua vita come tutti gli altri»

Ha 20 anni e la sindrome di Down, la madre: «Costretto a stare sempre solo perché manca l’assistenza»

Costretto a giocare da solo con le macchinine, a inventarsi gli amici e la vita che non ha, perché lo Stato gli nega il sacrosanto diritto all’assistenza. La “colpa” di Antonio, 20enne di Tortora, è quella di avere un cromosoma in più, o meglio, la trisomia 21, la condizione che determina la sindrome di Down. Tanto basta perché la sua esistenza sia scandita da ingiustificata solitudine.

Il suo unico contatto con il mondo, famiglia a parte, sono i terapisti che vanno a trovarlo tre volte a settimana per sottoporlo alle cure “occupazionali” da quarantacinque minuti l’una. Dopodiché, il nulla. Non ci sono centri che possano occuparsi di lui o assistenti, volontari che possano guidarlo alla scoperta del mondo, o anche solo fargli un quarto d’ora di compagnia. Antonio, e i ragazzi come lui, sembrano essere un peso per la società.

A sua madre hanno detto tante volte di arrangiarsi, perché il figlio percepisce la pensione di invalidità e quei pochi spicci dovrebbero farseli bastare per tutto, per medicine, viaggi, visite e pure per l’assistenza. E intanto, mentre va in scena il solito rimpallo delle responsabilità, Antonio continua a passare la maggior parte del tempo da solo, senza stimoli e senza nessuna opportunità di crescita.

L’ora e mezzo di terapia a settimana

Antonio (ma il suo nome all’anagrafe è un altro) cresce in un ambiente famigliare sereno, circondato dall’amore dei famigliari, della sorellina, della mamma e del marito, che non è il padre biologico del ragazzo ma è per lui, a tutti gli effetti, un genitore attento e presente.

Negli anni, la famiglia ha cercato di fargli vivere una vita al pari di quella dei suoi coetanei, ma sul loro cammino hanno incontrato diversi ostacoli, a partire da quelli generati dalla solita burocrazia lenta ed inefficiente.

Antonio comincia a sottoporsi ad alcune terapie nei centri Aias di Lauria, trenta chilometri più a nord di casa sua, nel Potentino, ma lo stress per i viaggi gli causa una grave reazione allergica. Il suo corpo si riempie di chiazze rosse pruriginose. Così, d’accordo con i dirigenti dell’Asl di Scalea, i responsabili decidono di seguire il ragazzo a casa, nell’ambiente a lui più consono.

Gli addetti lo sottopongono alle terapie occupazionali per tre volte a settimana. Antonio, di volta in volta, fa passi da gigante e piano piano conquista la sua autonomia nelle piccole cose. La famiglia si rende conto che, se potesse avere accesso alle terapie per più ore, sarebbe molto meglio e imparerebbe molte più cose. Ma l’Asp frena: di più non si può.

Le continue umiliazioni

Per un certo periodo, la famiglia tenta la strada della socializzazione e lo convince a frequentare il centro Arianna, realtà consolidata del territorio di comprovata professionalità. Qui, Antonio fa nuove amicizie, gioca con gli altri, si appassiona alle attività, ma dopo un po’ deve lasciare: senza un assistente alla persona non può rimanere, in primis per la sua tutela.

Così la sua mamma si rivolge alle istituzioni preposte per richiedere la figura sanitaria che possa accompagnare il figlio alla scoperta del mondo. Ma sembra che nessuno possa farci niente, Antonio e la sua famiglia devono sbrigarsela da soli. A ciò si aggiungono le umiliazioni dei cittadini comuni: «Hai la pensione di tuo figlio – si sente dire la madre -, usala per pagarti qualcuno. Di che ti lamenti?». La donna si sente ferita e mortificata.

«È vero – ci dice, con la voce spezzata -, mio figlio prende la pensione di invalidità e io, in quanto sua tutrice, percepisco anche l’indennità di accompagnamento, ma quei soldi mi servono per far fronte a tutte le sue esigenze». Che sono tante.

La madre compra di tasca sua le medicine, i giochi che stimolino la sua attività cerebrale, le visite, i viaggi e tutto quello che serve per dare al figlio una parvenza di normalità. A volte, i pannoloni forniti dall’Asp non bastano e occorre procurarsene altri. C’è poi da dire che l’intera cifra della pensione non basterebbe a pagare adeguatamente lo stipendio di una figura professionale di assistenza alla persona.

«In questi anni me ne sono sentita dire di tutti colori – confessa la donna -, sono arrivati finanche a dire che io approfitto della situazione di mio figlio. Ma Dio è grande, so che prima o poi mio figlio ed io avremo il nostro riscatto». Per il momento, la loro è soltanto una lotta contro i mulini a vento.

Il grido di aiuto

«Adesso sono stanca – dice ancora la donna, da cui il figlio ha ereditato il sorriso radioso e lo sguardo tenero -. Voglio che tutti sappiano che lo Stato e le istituzioni ci hanno prima preso in giro e poi abbandonato. Io non mi arrendo e continuerò a lottare, costi quel che costi. Non chiedo la luna, chiedo soltanto che a mio figlio venga riconosciuto il diritto di vivere la sua vita come tutti gli altri. Mio figlio non è un peso, né per la sua famiglia né per la società, è un dono prezioso che riempie le nostre giornate di gioia e di amore ed ha tanto da dare. Spero che qualcuno lo capisca e ci aiuti».