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Anche nel petto dei boss di ’ndrangheta batte un cuore da tifoso. A differenza della gente comune, però, per loro il calcio non è solo passione, ma soprattutto interesse. Cosenza non fa eccezione alla regola. Pure qui, infatti, l’intreccio fra malavita e pallone ha radici profonde.
Il vecchio padrino rompe l’assedio
Grande sostenitore dei Lupi era Luigi Palermo alias “U zorru”, la cui morte, avvenuta il 12 dicembre del 1977, segna lo spartiacque ideale tra ciò che era un tempo la malavita e ciò che sarebbe diventata negli anni successivi. Il vecchio padrino ne fa soprattutto una questione di prestigio, sul modello camorristico. Anche lui, a metà degli anni Sessanta, stravede per l’idolo calcistico locale, il bomber Renato Campanini, e oltre a frequentare le tribune alla domenica si fa vedere spesso in compagnia di dei calciatori che, nel momento del bisogno, si ricordano di lui. Accade che, dopo una sconfitta casalinga, i tifosi inferociti assediano la squadra rintanata negli spogliatoi. Qualcuno riesce a mettersi in contatto con Palermo che, giunto al San Vito, scorta personalmente gli atleti fuori dallo stadio.
Il calciatore e la donna sbagliata
All’epoca, le ingerenze sono tutte qui. Non c’è ancora modo di lucrare sul mondo ancora poco dorato di Eupalla, ragion per cui nel decennio successivo, la presenza oscura della malavita rappresenta al più uno spiacevole inconveniente. All’inizio dei ’70, infatti, un calciatore rossoblù allaccia un rapporto sentimentale con la donna di un uomo d’onore locale. Quando, però, decide di stoppare quella relazione, la donna minaccia di scatenargli contro il suo pericoloso amante. Morale della favola: durante il mercato invernale, il calciatore viene trasferito a scopo precauzionale a una squadra del Nord Italia.
La malavita è alle porte
Gli affari cominciano a farli dal 1983. È in quel periodo che, a detta di diversi pentiti, la malavita gestisce il controllo degli ingressi allo stadio San Vito. Un business minore che si realizza sotto la presidenza di Vincenzo Morelli, colui il quale subisce suo malgrado tale imposizione. Dura poco, perché a metà del decennio, una normativa nazionale impone l’assegnazione di questo servizio tramite gara d’appalto. Quello cosentino è affidato a una ditta di vigilanza pugliese, circostanza che induce i clan a battere in ritirata. Il loro tornaconto, dunque, torna a essere confinato esclusivamente nel ritorno d’immagine a fini di ostentazione.
Un’offerta che non si può rifiutare
Con il ritorno della squadra in serie B cambia tutto. A quel punto, il volume dei capitali che orbitano attorno al calcio comincia a levitare e gli interessi non si riducono più alla vanità o al controllo delle porte carraie. Corre l’anno Duemila quando durante il processo “Ciak”, il pentito Franco Garofalo rievoca in aula il giorno del 1989 in cui lui, Ferdinando Vitelli e Nicola Belmonte, si presentano al cospetto di Antonio Serra con una proposta che l’allora presidente della società rossoblù non può rifiutare: soldi in cambio di protezione. «Eravamo partiti da venti milioni di lire all’anno – rammenta Garofalo – e poi siamo arrivati a trenta, più le tessere». L’estorsione, oltre alla cifra in denaro, prevede anche una cinquantina di abbonamenti omaggio per gli affiliati del gruppo. «I soldi ci venivano dati alle prime due partite di cartello del campionato, venivano presi dagli incassi. Gli abbonamenti erano assortiti, un po’ di Tribuna A un po’ di B, qualcuno di curva e qualcuno della numerata».
La croce per il patron
A esercitare quel racket è il clan Perna, ma la fine delle ostilità con il gruppo di Franco Pino impone di mandare, di volta in volta, un pensiero anche agli ex rivali. Proprio Pino, intanto, esercita un’influenza parallela sulle dinamiche pallonare cittadine. Una partita “comprata” contro l’Avellino e una venduta al Pescara, dietro sua intercessione, segnano il suo interesse sul tema calcio e dintorni, prima che gli arresti di “Garden” decretino la fine dei giochi, sia per lui che per tutta la malavita del dopo Zorro. Cambiano i tempi e anche gli uomini, ma il Cosenza calcio continua a stimolare gli appetiti della criminalità. Sotto la presidenza di Paolo Fabiano Pagliuso le ingerenze diventano ancora più asfissianti, tanto da comportare l’intervento della magistratura. I risultati saranno devastanti: il patron che, indicato a torto come complice (era in realtà vittima dei taglieggiamenti), subisce l’onta di nove mesi di carcerazione preventiva mentre la società da lui guidata è costretta a ripartire dai Dilettanti.
La partita di ritorno
La sparizione del Cosenza dal panorama sportivo che conta, fa scemare anche l’interesse della malavita locale per l’universo pallonaro. È l’effetto positivo di quell’epilogo, l’unico a volerne trovare per forza uno. Seguono anni di relativa calma fino al 2014, quando i nuovi boss che si affacciano sulla scena sembrano determinati a riannodare i fili di quella tradizione in precedenza spezzati. In quel periodo, infatti, è un pentito di ultima generazione, Giuseppe Montemurro, a rivelare come i clan, in particolare quello degli zingari, fossero pronti a lanciare una nuova offensiva contro il Cosenza calcio. L’idea era quella di mettere le mani sul servizio di security e, a detta del collaboratore di giustizia, una delegazione era già pronta ad affrontare il presidente Eugenio Guarascio per imporgli la dura legge del gol. E del crimine. L’affare non si concretizzerà, nemmeno sotto forma di tentativo, perché gli arresti dell’operazione “Nuova famiglia” prima e di “Doomsday” poi, riporteranno le lancette agli anni Sessanta. Ed è lì che sono ferme ancora oggi. Almeno così pare.