Repice: «Porto le emozioni degli Ultrà Cosenza al Rendano. Poi torno a vivere in Calabria»
Il 28 febbraio al teatro in programma lo spettacolo "Otto e Nove (fora maluacchiu)". Il celebre radiocronista tifoso dei Lupi: «Lo devo alla città, alla mia città»
La voce di chi ha raccontato le imprese sportive degli ultimi trent’anni al Rendano di Cosenza per uno spettacolo che andrà sold-out quanto prima. Francesco Repice non vedeva l’ora di tornare nella sua Cosenza perché, come spiega nell’intervista, «chi vive fuori si porta dentro questo senso di dover risarcire in qualche modo la città natale».
Otto e Nove, Denis Bergamini e Gigi Marulla. Due numeri “magici” che hanno accarezzato il sogno della serie A. E che, ancora oggi, raccontano molto più delle maglie a lungo indossate. Lo spettacolo “Fora maluacchiu” si inserisce nel contesto delle rappresentazioni teatrali “La voce del pallone”. Ce n’è già stata una a Frosinone di recente: un successo.
Repice, la tappa di Cosenza perché sarà diversa?
«Perché sarà basata sulle emozioni e si parlerà di Marulla e Denis. Lo spettacolo avrà il filo conduttore de “La voce del pallone”, ma intesa proprio come sfera di cuoio. Parlerà lei, tramite la mi voce».
E cosa ci dirà?
«Che siamo andati troppo avanti e che non è più quel gioco che era inizialmente. Non c’entra più niente col pallone. Quanti giocano oggi con un Super Santos per i palazzoni di viale della Repubblica come facevo io?».
Come nasce l’idea di portare un romanzo a teatro?
«Come tutte le cose, da un confronto a metà febbraio 2023 con Andrea Marotta e Francesco La Luna. Andrea mi parlò del libro “Lontano da me” e si accese la lampadina».
Che rappresenta per lei, emotivamente?
«E’ un risarcimento verso Cosenza, la mia città. In chi vive fuori c’è un senso di colpa tambureggiante, discreto, nascosto, ma sempre presente. C’è la voglia di onorare la terra di nascita ed io posso farlo salendo sul palco».
Pensa spesso a Cosenza?
«Se Dio vorrà, in pensione tornerò a vivere in Calabria: è già in programma».
Si emoziona ancora con quella sfera di cuoio a cui alludeva prima?
«Sì, quando entro negli stadi. Lo stadio è un posto meraviglioso, specialmente per chi arriva dalla curva. A Roma, alla fine degli anni ’70, era tutto molto complicato. Se si incontravano due ragazzi per strada con idee politiche differenti finiva male. In curva, invece, quei due giovani si abbracciavano e saltavano insieme: è un microcosmo di cui molti parlano a sproposito».
Si riferisce agli ultrà?
«Sì, fermo restando che ci sono delle aberrazioni dinanzi alle quali non mettiamo mica la testa sotto la sabbia. Essere ultrà è però un’altra cosa e Cosenza ne è la dimostrazione lampante. Padre Fedele ha portato quei concetti al di fuori di uno stadio, spostando la curva nella città e diventando traino per mille iniziative sociali. Se riesci a creare una comunità, un gruppo che ha un obiettivo comune senza costringere nessuno ad iscriversi ad un partito o ad un’associazione, è tanta roba. Credo che ormai ci sfugga il concetto stesso di comunità: ha un valore enorme. A Cosenza il termometro emotivo per la promozione del 1988 segnava temperature altissime. Fu chimica, ma si chiama amore».
Ci saranno riferimenti a ciò nel suo spettacolo?
«Sì, la curva è importantissima: sarà protagonista. Del resto, senza quei colori, quei fumogeni e senza gli striscioni portati avanti e indietro nel tempo sui treni nei vagoni della seconda classe, cosa sarebbe stato il calcio?».
Per cosa è valsa veramente la pena raccontare 30 anni di sport?
«Ho sentito qualcosa di molto potente il giorno dell’addio di Francesco Totti. L’intera città condivideva con il “capitano” tutte le emozioni possibili. Gli si riconosceva la sapienza calcistica, ma anche il non aver mai detto una bugia o tradito il suo popolo».