Enzino Pelazza corre. Gli riesce bene perché nella vita, tra le altre cose, fa anche il calciatore. In campo è rapido e talentuoso, ma stavolta non insegue un pallone, corre per salvare la pelle. Un uomo incapucciato, infatti, gli sta alle costole. In mano, stringe una pistola. Enzino corre e quell’altro spara, tra le viuzze di Carolei, mentre un’auto scura li segue a distanza, lenta e spettrale. Sono le otto di sera del 28 gennaio 2000.

Pelazza, 32 anni, è da poco uscito di prigione dove, pare, non si sia comportato benissimo. Tracotante e violento con gli altri detenuti, si fa forte della sua affiliazione con la famiglia del momento, quella dei “Bella bella”. Si è esposto troppo. Ora tutti sanno chi è e cosa vuola. Ed è proprio per questo che vogliono ucciderlo. Lo attendono all’uscita da una trattoria e lo inseguono fin sotto il portone di casa.

Sera sfortunata quella del 28 gennaio, perché tragedia nella tragedia, racconta anche la storia di una madre a cui tocca assistere all’uccisione del proprio figlio. La signora Pelazza, infatti, è affacciata dal balcone quando le 9×21 fanno «bang» per la prima volta. Pensa a uno scherzo, la donna. Pensa che quella sia una pistola giocattolo perché a brandirla è una persona straordinariamente bassa. «Sembrava un bambino» spiegherà in seguito agli inquirenti. Ma non si tratta di un bimbo. E quello non è un gioco innocente, bensì la cronaca di un omicidio.

Torniamo in carcere dove, un paio d’anni prima, ha origine ogni cosa. A quei tempi, Pelazza si lega a un nuovo gruppo che spera di ritagliarsi uno spazio autonomo nel contesto criminale locale. A reggere i fili di quel discorso è Francesco Bruni alias “Bella bella” con il supporto della batteria jonica di Leonardo Portoraro, Giovanbattista Atene e la “benedizione” di Antonio Sena, l’ultimo padrino di un tempo andato, unico superstite di una generazione di boss ormai pentiti, condannati, estinti.

In quel contesto, Pelazza brilla fin da subito per attivismo, ma così non attira solo le attenzioni degli amici, soprattutto quelle dei nemici. Lo considerano «valido e pericoloso azionista», ragion per cui finisce sulla lista nera di chi, una nuova famiglia di ‘ndrangheta, proprio non la vuole tra i piedi. Ecco perché, quella sera di gennaio, si decide di eliminarlo.

Per la sua morte saranno condannati Mario Gatto e Franco Presta, due nomi che ritornano in quasi tutte le inchieste dell’ultimo decennio, poiché entrambi indicati come “titolari” del gruppo di fuoco del clan di Ettore Lanzino. E’ cosa loro, dunque, la morte di Enzino Pelazza, bel calciatore, criminale emergente, investito dal piombo di diciannove pallottole mentre fa ritorno a casa, in una sera apparentemente uguale alle altre. Prima della fine, un testimone lo sente urlare «Basta, basta». Crudele, proprio come in un gioco di bambini.