La storia di Angelo Dundee, il coach calabrese che trasformò Muhammad Ali in leggenda
Con il suo stile unico di motivazione e la profonda conoscenza del pugilato, Dundee portò alla vittoria numerosi altri campioni, tra cui Sugar Ray Leonard e George Foreman. La sua filosofia di allenatore, il carattere amato e l'abilità tattica fecero di lui una figura iconica
Le storie di sport sono diverse da tutte le altre, grondano sangue e sudore, raccontano di come puoi farcela e di come puoi precipitare anche se ce l’hai messa tutta. Le storie di sport raccontano di uomini e donne che cercano il loro scopo nella vita e quando lo trovano, non possono che bruciare tutto quello che sono, per essere ciò che vogliono.
“Niente è impossibile”, prima che diventasse un claim da scarpe sportive, era un getto di fuoco uscito dalle labbra di Muhammad Alì, quando era Cassius Clay e stringeva i pugni, ma per rabbia, perché un altro giovane come lui, Emmet Till, era stato massacrato e poi gettato nel fiume Tallahatchie, per il colore della sua pelle.
E questa storia riguarda proprio il pugile che volava come una farfalla e pungeva come un’ape, anche se il protagonista è l’uomo che stava al suo angolo.
Quell’uomo di cui raccontiamo oggi, si chiamava Angelo Miranda, ma tutti lo conoscono con il nome di Angelo Dundee. Fu lui a rendere quel ragazzo che aveva le stelle negli occhi, non solo un pugile, ma un mito.
La famiglia Miranda da Roggiano a Philadelphia
Angelo Dundee, era americano di nascita, ma dalle parti di Morris Street, nella parte Sud di Philadelphia, c’erano più tricolori che stelle, e si parlava italiano, anzi dialetto, perché nel quartiere c’erano solo italiani di prima generazione che con l’inglese non avevano familiarizzato granché. Il papà di Angelo era di Roggiano Gravina, in provincia di Cosenza, e per mantenere la moglie Filomena (calabrese pure lei) e sette figli, aveva messo da parte quello che aveva imparato nei pascoli cosentini quando si occupava delle pecore, e s’era messo a fare l’operaio asfaltatore e lavorava sui binari della ferrovia. Quando la sua nave attraccò a Ellis Island, l’addetto alla registrazione non ne poteva più di tutti quegli italiani che non facevano che sbarcare in massa con le pulci nei capelli e quella lingua strascicata in bocca. Scrisse di fretta il suo cognome e Miranda diventò Merenda e poi, in un continuo invito a ripetere il cognome a chiunque chiedesse di firmare una carta o un permesso, in un gioco di equivoci e pronunce e vocali ballerine, si trasformò in Mirena e così restò.
La famiglia riuscì a sistemarsi in Pennsylvania, nel quartiere degli immigrati, e a cavarsela, tutto sommato. Il signor Miranda si spaccò la schiena notte e giorno affinché sulla tavola non mancasse mai niente e fosse tutto sano e nutriente, spaventato che un’altra ondata di batteri riportasse il lutto in una famiglia che aveva già patito la perdita di due bambini per la difterite.
Ogni sera mamma Filomena riempiva la tavola di piatti italiani, per sentire il sapore di casa: lunedì, carne e patate servite in una grande pentola; martedì, spaghetti e polpette; mercoledì, verdure; giovedì, pasta; venerdì, pesce; sabato, sacchetti misti con panini; e domenica, un grande pasto tradizionale italiano che metteva alla prova chiunque. «Tutto servito con vino fatto da papà – scrive Dundee nel suo libro di memorie – E guai a chi di noi si presentava in ritardo a cena, papà ci avvertiva sempre: “Quando il cibo è sulla tavola, mostra a tua madre il rispetto di essere lì per mangiarlo.” In altre parole, mangia. E mangiavamo; le famiglie provenienti dalla Calabria sapevano mangiare di tutto».
La chiamata al fronte e la passione per la boxe
Per Angelo arrivò la chiamata al fronte. C’era stato Pearl Harbor e il Giappone s’era trascinato gli Usa in guerra. Il ragazzo fu costretto a partire per l’Inghilterra per ingrossare le file dei militari di stanza in un’Europa minacciata dai nazisti. Quell’esperienza gli cambiò la vita perché lo avvicinò alla boxe. Se ne stava per molte ore a ciondolare nelle retrovie e sempre più spesso, a sera, scivolava nelle bettole a guardare incontri di pugilato amatoriale organizzati tra soldati americani che così tiravano su qualche soldo e non pensavano alle bombe che gli fischiavano sulla testa.
Mr Dundee
Angelo tornò in America sano e salvo e con un’idea fissa ben piantata in testa. Non voleva diventare un pugile, ma un allenatore. Scelse un nome d’arte, che suonasse meglio del suo cognome storpiato tante volte. Suo fratello, con cui condivideva l’amore per il ring, ogni tanto boxava col nome di Johnny Dundee (per non far sapere ai genitori che indossava i guantoni) come il pugile siciliano di Sciacca, destinato a diventare una stella e che di cognome faceva Curreri, fino a che il suo manager gli disse: «O cambi o ti confonderanno con le carote (carrot ndr) e la gente comincerà a tirarti addosso le verdure». Dundee se suonava bene per Joe, sarebbe stato perfetto anche per Angelo che partì per la Florida e con l’altro fratello, Chris, e prese in gestione la Fifth Street Gym, dove passarono tanti campioni.
The corner man
A Miami, Angelo Dundee Miranda, era già per tutti the corner man, l’uomo dell’angolo. Sotto di lui si allenarono Carmen Basilio (che con Miranda vinse nella categoria pesi welter), Willie Pastrano, Jimmy Ellis, Luis Rodriguez, George Foreman, Josè Napoles, Sugar Ray Leonard (che Angelo definì il nuovo Alì). Era benvoluto da tutti nell’ambiente per il suo carattere bonario, ma deciso; per come motivava i suoi pugili, per la sua gentilezza, per il linguaggio da alcuni considerato buffo, che mescolava la cadenza italiana all’inglese maccheronico sfumato di note spagnoleggianti.
L’incontro con Cassius Clay
«Sentii per la prima volta parlare di Angelo nel 1957. Lo stavo guardando durante Friday Night Fights; era nell’angolo con Willie Pastrano, Luis Rodriguez e altri pugili. Dissi tra me e me: “Un giorno incontrerò quell’uomo”» così scrisse Muahmmad Alì nella prefazione dell’autobiografia di Angelo Dundee “My view from the corner”. «A Miami, mi unii all’Islam e la notizia che ero un musulmano si diffuse. In quegli anni, Elijah Muhammad ci diceva che l’uomo bianco era il Diavolo, e io ci credevo. Angelo Dundee non prestò attenzione a tutte quelle chiacchiere e a quella cattiva pubblicità. Non mi disse mai che sbagliavo, non chiese mai perché mi fossi unito ai musulmani e non commentò mai la questione. Mi lasciò essere esattamente chi volevo essere ed era leale. Questa è la ragione per cui amo Angelo». E così in un pomeriggio qualunque, intorno alle due, due e mezza del pomeriggio, un ragazzo di nome Cassius Clay chiamò il numero dell’hotel Sheraton e chiese di mr Dundee.
Per Alì, Angelo fu una benedizione e una salvezza. Come nel 1964 nell’incontro contro Sonny Liston quando Alì disse ad Dundee che non ci vedeva più e scorgeva solo ombre e così non poteva combattere. Dundee spronò il suo pugile: «È per il titolo! Vai!» gli urlò. Anche se mezzo cieco, Alì diede retta al suo allenatore e vinse. Solo dopo si venne a sapere che i secondi di Liston avevano sparso sui guantoni del loro pugile una sostanza irritante per accecare Alì.
Dundee era per Alì quasi come un padre, sapeva come prenderlo e quando era il momento di calmare i suoi bollenti spiriti, cosa che non era proprio facile. The Greatest era sulfureo, sbruffone e faceva parecchia scena prima degli incontri. Amava sbeffeggiare l’avversario, anche se poi vi si legava in modo affettivo, come accadde nel famoso incontro-non incontro con il campione giapponese Antonio Inoki, che Alì aveva preso in giro fin dalla conferenza stampa, e che in seguito, dopo quel match, seguì con stima e affetto.
Il grande motivatore
Dundee aveva la capacità di motivare Alì anche quando la sconfitta sembrava vicina. Contro Joe Frazier gli sussurrò all’orecchio la frase magica: «Hai vinto, lui non ne ha più». Alì si fidava tanto di lui che quelle parole gli bastarono per credere che avesse ragione. Qualche volta, poi, Angelo giocò d’astuzia, come nel match contro Henry Cooper quando chiese all’arbitro tempo per sostituire i guantoni rotti di Alì che nel frattempo riuscì a rifiatare. Ancora oggi in molti si chiedono se fosse vero.
Si ricorda bene Johnny Holman, quello che gli disse Dundee, quando era a un tocco da lasciar perdere e arrendersi. Angelo gli ripulì la faccia con la spugna e gli sussurrò: «Quel ragazzo si sta portando via la tua casa… Ti sta fottendo il portone e il battente. Si porterà via la televisione sistemata lì per te!» E non c’era cosa che Holman desiderasse di più se non comprarsi finalmente una casa. Così finì l’incontro e, naturalmente, lo vinse.
«You’re blowing it son!» («stai rovinando tutto figliolo!) soffiò a Leonard che era ormai allo stremo delle forze. Hearns, il suo avversario, era a un tanto così dal vincerlo ai punti, e oramai passeggiava per il ring aspettando il gong. Dopo quelle parole Sugar lo mandò al tappeto massacrandolo di pugni.
In seguito Angelo fu accanto a George Foreman, che agguantò la vittoria del titolo dei pesi massimi nel 1994 contro l’allora imbattuto Michael Moorer. Howard Cosell, celebre giornalista sportivo, un giorno disse: «Se avessi un figlio che volesse diventare un combattente e non riuscissi a dissuaderlo, l’unico uomo a cui lo farei allenare è Angelo Dundee».
Il cinema e l’addio
Nonostante l’età l’amore per la boxe non tramontò mai nel cuore di Angelo che fece qualche incursione anche sui set cinematografici. Accadde per il film “Cinderella man” con Russel Crowe, dove compare in un cameo. L’ultimo spicchio di sole, il vecchio “uomo dell’angolo, lo vide a Tampa l’1 febbraio 2012, circondato da tutta la sua famiglia e dai ricordi di una vita fatta di sacrificio e vittorie, senza mai perdere la tenerezza.