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È in stato di detenzione da quasi trent’anni, un lasso di tempo trascorso in gran parte ai domiciliari e con una breve parentesi dietro le sbarre. Tutto questo, però, Umile Arturi se l’è lasciato ormai alle spalle. Lo storico collaboratore di giustizia cosentino, oggi sessantasettenne, ha ottenuto di recente la liberazione condizionale che gli consente di tornare in circolazione a tempo pieno e con due anni e tre mesi d’anticipo rispetto al previsto. A concedergli il beneficio della libertà vigilata è stato un Tribunale di sorveglianza che ha accolto l’istanza presentata dal suo difensore, l’avvocato Enrico Tucci, nonostante il parere contrario espresso dalla Direzione nazionale antimafia.
Arturi scontava diverse condanne per omicidio, retaggio dei suoi anni ruggenti, quelli della prima guerra di mafia combattuta a Cosenza tra la fine degli anni Settanta e la prima metà del decennio successivo. In quel contesto luttuoso, lascia una firma indelebile. Intercettazioni d’antan, eseguite sulla sua utenza domestica dopo l’omicidio di Armando Bevacqua (1980), cercano di raccogliere indizi a carico dei responsabili, ma documentano solo lo sgomento dei suoi familiari – estranei a logiche criminali – per quel conflitto tra bande che comincia a insanguinare la città. Non è quasi mai in casa e a ogni notizia di agguato o sparatoria in corso, sua madre chiama l’ospedale per sincerarsi che tra i feriti, o peggio ancora tra i caduti, non ci sia anche lui. È il suo apprendistato, un periodo breve a cui farà seguito un’ascesa vertiginosa.
“Nasca”, soprannome poi accantonato in luogo di un più morbido “Umilicchio” diventa, non a caso, il numero due del clan intestato solo formalmente a Franco Pino e Antonio Sena, ma nella cui ragione sociale troneggia idealmente il suo nome.
«Il più criminale di tutti» lo definirà in seguito Pino, senza mezzi termini. È tutta questione di mentalità. In quei giorni, la sua specialità è l’arruolamento di nuove leve che pesca nei quartieri popolari (Massa, Spirito Santo, Casali) e nella zona di Castrolibero per impiegarle con ruoli minori – staffette, specchietti – all’interno dell’organizzazione. Si tratta in gran parte di giovani incensurati che, soggiogati dal fascino criminale del loro mentore, sono pronti a fare qualsiasi cosa per lui. Anche morire. E per molti di loro, purtroppo, l’epilogo sarà proprio questo.
Nel 1996, a processo “Garden” in corso, arriva la sua prima svolta esistenziale: la scelta di collaborare, mutuata dal suo vecchio capo e preceduta da un breve periodo di latitanza. Negli anni successivi, lui e Pino saranno i principali testimoni d’accusa in diversi processi antimafia dall’epilogo altalenante. Il sospetto che i due possano essersi incontrati per concordare le versioni da rendere in aula, infatti, diventerà il refrain di alcune sentenze a corredo di assoluzioni collettive.
Una brutta tegola gli piove addosso a settembre del 2012 e gli comporta la revoca dei benefici concessi ai collaboratori di giustizia, circostanza che lo riporta dietro le sbarre. Tutta colpa di alcune denunce sporte all’autorità giudiziaria contro un suo familiare, reo di aver commesso una presunta truffa assicurativa. Truffa, assicurano i denuncianti, della quale era a conoscenza lo stesso Umilicchio. Ne verrà fuori dopo un paio di anni, e dopo aver rinunciato allo stipendio da pentito, avvia un’attività commerciale con la liquidazione accordatagli dallo Stato.
Dal settembre del 2011, inoltre, c’è un altro pentito, Francesco Galdi, che tra le altre cose, sostiene di aver avuto a che fare con lui nel corso dell’ultimo decennio e lo accusa di aver continuato a delinquere anche nei nuovi panni da collaboratore di giustizia, mantenendo persino contatti stretti, giù in Calabria, con i vecchi compagni d’arme. In seguito, gli investigatori accerteranno la «totale assenza di legami tra lui e la criminalità organizzata». Sospetti infondati, dunque, che appartengono ormai al passato di Umile Arturi. C’era una volta e oggi non c’è più, il «più criminale di tutti».