Gigi Marulla avrebbe compiuto 60 anni proprio oggi. Il simbolo della Cosenza sportiva manca tanto alla sua gente e alle migliaia di innamorati che fece impazzire nell’infuocato pomeriggio di Pescara nel 1991. Semplice attaccante prima, capitano e allenatore poi, fu l’esempio di tutto ciò che un tifoso vorrebbe.

Dedito totalmente alla causa rossoblù, ha lasciato un vuoto incolmabile. Questo dimostra la sua grandezza, quello che ha rappresentato, rappresenta e rappresenterà per tutti i cosentini e non solo. Gigi Marulla non c’è più da un po’ e il senso di vuoto è immenso. Eppure chiudendo gli occhi, lo si immagina ancora nella sua scuola calcio insieme a centinaia di bambini o in un campo di calcio per una gara amatoriale, o in una partita con le vecchie glorie o pronto a segnare il suo centesimo gol nel giorno del centenario e correre sotto la Curva Sud.

Gigi Marulla, con quella maglia numero nove sulle spalle, ha vissuto da gigante in mezzo ad un campo di calcio, lui piccolo di statura ma capace di essere quel Davide che a distanza di secoli conferma che Golia può essere battuto. Già, la maglia numero nove. Qualche anno fa lanciammo un sondaggio chiedendo al popolo dei Lupi se fosse giusto ritirare o meno quel numero. La risposta venne da suo figlio Kevin, team manager del club. Disse che riteneva giusto che tutti i ragazzi di Cosenza e del settore giovanile potessero sognare un giorno di vestire quella casacca.

Non c’è mai stato il minimo dubbio se intitolare o meno il San Vito all’uomo della provvidenza. E al caso piace chiudere i cerchi, come in occasione della promozione in B avvenuta proprio in un luogo cult dell’ultracentenaria storia del calcio cittadino. A proposito di immagini iconiche, ne resta un’altra. Quella del tunnel dello stadio di Padova, quando Gigi Marulla salvò (di nuovo) il Cosenza per qualche minuto prima che scoccasse l’ora del gol di Lantignotti.

Il 19 luglio, così come due giorni dopo per l’ultimo saluto, la città rimase paralizzata. Il silenzio surreale che accompagnò l’inizio della funzione religiosa lasciò presto spazio ai cori degli ultrà e al verbo di Padre Fedele. L’incedere dei minuti era direttamente proporzionale all’aumento delle presenze. Gente di ogni età volle essere lì per forza, sacrificando perfino il lavoro. Un grande drappo colpì su tutti l’attenzione dei presenti: c’era disegnato il numero nove e sventolava fiero come non mai. Le bandiere, del resto, non moriranno mai.