A 24 ore dal dietrofront di Roberto Porcaro sono ancora ignote le ragioni per cui l’ex boss di Cosenza abbia deciso di stoppare la sua collaborazione con la giustizia. Decisione irrevocabile la sua o un ripensamento è ancora possibile? Lo sapremo il 29 settembre, data in cui riprenderà il processo “Reset”.  A prescindere, però, da quella che sarà la sua scelta finale, il colpo ad effetto con cui ha annunciato la fine della sua breve carriera da pentito è destinato a passare agli annali. Un episodio del genere, infatti, non si era mai verificato in un tribunale calabrese, non a memoria d’uomo almeno. Semmai, è accaduto l’esatto contrario. E cioè che più d’uno ha manifestato la volontà di pentirsi nel bel mezzo di un’udienza.

La scena è quella di “Garden”, il maxiprocesso che a metà degli anni Novanta disarticola i vecchi clan di ‘ndrangheta e inaugura la stagione del pentitismo cosentino. Sulla scia di Roberto Pagano, saltano il fosso almeno una quindicina di ex affiliati ai gruppi criminali, una diaspora che interessa soprattutto il clan Perna-Pranno. Almeno tre di queste decisioni maturano in presa diretta, a dibattimento in corso, anticipate da brevi dichiarazioni spontanee.

Il primo a sfruttare l’effetto sorpresa è Nicola Belmonte, un omicidio di mafia sulle spalle e tanti anni di militanza al servizio di Mario Muglia prima e di Franco Perna poi. Sul volto, una vistosa cicatrice ricordo di un agguato da lui subito a colpi di mitra. Il 3 dicembre del 1996, richiama l’attenzione dalla gabbia in modo plateale e, una volta salito sul banco dei testimoni, spiega ai presenti cos’è che ha da dire: «Ho deciso di collaborare e mettere una pietra sul passato per uscirmene da questa vita, infernale e brutta. L’unica strada per uscirmene è questa qua, la via della collaborazione con la giustizia, e poi voglio dare un avvenire anche ai miei figli, che ho due bambini. Ho una figlia di 8 anni e un bambino di cinque anni».

Due settimane più tardi il suo esempio è fonte d’ispirazione per Francesco Tedesco, un pezzo grosso del sottogruppo di San Vito. Specialista in omicidi e grandi estorsioni, tra i più abili a riciclarsi nella società civile come un rispettabile imprenditore. Ovviamente, solo in apparenza. Anche lui, il 18 dicembre del ’96 decide però di gettare la spugna: «Voglio finirla con questa vita – spiega ai microfoni dell’allora aula bunker di Andreotta – ho una famiglia da badare, mi sono pentito di tutte le cose che ho fatto perché effettivamente… anzi, chiedo scusa alle famiglie delle vittime, però con questa vita voglio finirla. Ci ho messo una pietra sopra».

Quaranta giorni dopo tocca a Edgardo Greco, che in seguito vivrà una lunga stagione da latitante interrotta a febbraio del 2023 in Francia. E’ anche lui imputato di “Garden” quando il 28 gennaio del ’97 frutta la chance offerta dalle dichiarazioni spontanee per affermare in modo solenne: «Da oggi intendo collaborare con la giustizia». A quel punto, ormai, non si stupisce più nessuno. Come primo atto del suo nuovo corso di vita, Greco si autoaccusa di un crimine che non è contemplato nel processo: l’omicidio dei fratelli Bartolomeo. E’ la vicenda che anni dopo gli costerà l’ergastolo. Quel giorno sale sul banco dei testimoni con in mano un disegno fatto a matita. E’ uno schizzo della mattanza avvenuta sei anni prima nella pescheria di via Migliori.