Nel processo Reset, il tribunale di Cosenza ha emesso la sentenza di primo grado al termine di un procedimento penale monumentale che ha visto alla sbarra oltre cento imputati (e altrettanti sono stati giudicati con il rito abbreviato). Al termine di una camera di consiglio durata una settimana, i giudici Carmen Ciarcia, Urania Granata e Iole Vigna hanno pronunciato oltre 60 assoluzioni ma anche 28 condanne per il reato associativo di stampo mafioso, previsto all’articolo 416-bis del codice penale.

A ricevere la condanna più severa è stato Massimo D’Ambrosio (assolto per il voto di scambio politico-mafioso in concorso con Manna, Munno e altri imputati, anch’essi dichiarati estranei ai fatti contestati), condannato a 19 anni e 8 mesi per associazione mafiosa e altri reati satellite. Segue Sergio Raimondo con 18 anni, Rosanna Garofalo con 17 anni e 6 mesi, Antonio Presta con 16 anni e Denny Romano con 16 anni e 8 mesi. Per loro, oltre alla pena detentiva, anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, l’interdizione legale durante la pena e la misura di sicurezza della libertà vigilata per tre anni dopo l’espiazione della pena.

Tra le condanne pesanti figurano anche Giuseppe Presta (12 anni), Andrea Mazzei (12 anni e 1 mese), Sergio Del Popolo (15 anni e 8 mesi), Alessandro Morrone (13 anni e 4 mesi), Carmine Caputo (11 anni), Francesco Casella (10 anni), Giovanni Garofalo (10 anni), Sandro Vomero (10 anni), Giuseppe Bartucci (10 anni) e numerosi altri componenti della presunta confederazione mafiosa operante, secondo la Dda di Catanzaro, tra Cosenza, Rende e Roggiano Gravina.

Il collegio giudicante ha escluso le aggravanti per diversi imputati, ma ha riconosciuto comunque la sussistenza del vincolo associativo mafioso, nonché l’aggravante dell’articolo 416-bis.1 per estorsioni, usura, traffico di droga e altre condotte tipiche delle dinamiche di clan.

Mafiosi ma non armati

La sentenza Reset, tuttavia, dice anche altro. Con l’esclusione del comma 4 e del comma 6, per tante posizioni ritenute intranee alla confederazione mafiosa cosentina, i giudici hanno ritenuto non provata l’aggravante dell’associazione armata e soprattutto, esito già emerso in abbreviato, che l’associazione mafiosa cosentina non reinveste i proventi illeciti nelle attività commerciali.

Questa decisione, nello specifico, ha riguardato gli imputati Antonio Presta, Giuseppe Presta, Carmine Caputo, Giuseppe Bartucci, Francesco Casella, Giovanni Garofalo, Alessandro Morrone, Sergio Raimondo, Denny Romano e Sandro Vomero.

Oltre alle condanne, il Tribunale ha disposto la confisca di beni per i condannati, compresi sequestri già operati in fase cautelare, e ha riconosciuto il risarcimento del danno in favore delle parti civili, tra cui la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell’Interno, Regione Calabria, Provincia e Comune di Cosenza. La cifra esatta sarà liquidata in sede civile, ma è stata già concessa una provvisionale immediatamente esecutiva in alcuni casi, come per Invitalia S.p.A, relativamente alla presunta truffa contestata a Mazzei, Brccolo e Perrone.

La sentenza ha anche stabilito la revoca di eventuali prestazioni previdenziali o assistenziali per chi è stato riconosciuto colpevole di associazione mafiosa.

Accanto alle condanne, il Tribunale ha pronunciato numerose assoluzioni, in particolare per chi era accusato di aver partecipato alle dinamiche di clan senza prove sufficienti. Non mancano scarcerazioni immediate per cessazione delle esigenze cautelari e prescrizioni per alcuni capi minori.

La sentenza Reset, che ricostruisce oltre un decennio di affari criminali nella provincia di Cosenza, getta una luce ancora non definitiva su una parte rilevante della consorteria degli “zingari” e italiani e sui legami con l’imprenditoria locale. Le motivazioni saranno depositate entro 90 giorni.