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Una richiesta da 30 a 50mila euro, camuffata da “regalo”, e la minaccia, nemmeno troppo velata, di spari o incendi in caso di rifiuto. È quanto ricostruisce il gup del tribunale di Catanzaro Fabiana Giacchetti nella sentenza del processo abbreviato Reset, in merito alla tentata estorsione aggravata contestata a Gennaro Presta, ritenuto appartenente al gruppo degli “zingari”.
Secondo la ricostruzione della Corte, l’imputato si sarebbe presentato tra il 12 e il 13 agosto 2018 a casa di Roberto Porcaro per raccontargli di aver avanzato una richiesta estorsiva nei confronti del ritenuto titolare del call center K Call Srl. Poco dopo, Presta avrebbe scoperto che l’effettivo proprietario della società era Ariosto Artese (imputato in Reset per concorso esterno in associazione mafiosa), nome che lo avrebbe spinto a informare immediatamente Porcaro.
È qui che la vicenda avrebbe cambiato direzione. Porcaro, figura di vertice della consorteria degli Italiani, non solo avrebbe ordinato a Presta di desistere – affermando che Artese era «un unico vicino a noi» – ma, in una conversazione intercettata il 19 settembre 2018 con Carlo Drago, avrebbe raccontato di aver «evitato che questi facevano passare 3 o 4 giorni e gli avevano sparato».
L’intervento di Porcaro – descritto nella sentenza come «decisivo» – avrebbe impedito lo scoppio di un’intimidazione ben più grave. «Gli abbiamo evitato un danno», avrebbe detto lo stesso Porcaro, riferendosi alla potenziale esplosione di colpi d’arma da fuoco o all’incendio dei locali.
A confermare l’intera vicenda, anche una conversazione tra Porcaro e Ariosto Artese del 5 febbraio 2019, alla presenza di Drago. Qui, Porcaro si lamentava del fatto che Artese si fosse rivolto a Mario Piromallo – esponente di un altro gruppo criminale – per risolvere il problema, anziché a lui. Una dinamica che secondo i giudici «evidenzia l’esistenza di una forte contrapposizione tra Porcaro e Piromallo».
Ma nonostante l’intervento, la richiesta estorsiva era già stata compiuta. Secondo la Corte, «la richiesta di versare un “regalo” dell’importo compreso tra i 30mila ed i 50mila euro è da considerarsi, oltre ogni ragionevole dubbio, atto idoneo e diretto a realizzare la fattispecie di reato», anche se poi non portata a compimento. La qualificazione come tentata estorsione aggravata è dunque ritenuta corretta.
La sentenza evidenzia anche l’uso del metodo mafioso e la finalità di agevolare l’associazione criminale. «È evidente l’utilizzo del metodo mafioso», scrive il giudice, «non solo per la minaccia implicita di un’azione violenta, ma anche per la spendita del nome del gruppo degli “zingari”». Proprio il riferimento a una nota consorteria criminale, con il rischio concreto di un’escalation violenta, è ciò che avrebbe indotto la vittima ad attivarsi per evitare ritorsioni.
In conclusione, secondo i giudici, la responsabilità penale di Gennaro Presta risulta «ampiamente provata» sulla base delle intercettazioni e delle dinamiche criminali accertate, e la mancata realizzazione dell’estorsione fu dovuta solo all’intervento strategico di un altro boss.