Per il nostro Paese, la sfida è doppia: da un lato difendere il valore delle proprie produzioni d’eccellenza, dall’altro costruire politiche nazionali e regionali che compensino il ritiro dell’Europa
Tutti gli articoli di Economia e lavoro
PHOTO
Per decenni la Politica Agricola Comune (PAC) ha rappresentato la spina dorsale dell’Europa, garantendo redditi stabili agli agricoltori e sicurezza alimentare ai cittadini. Negli anni Ottanta assorbiva quasi tre quarti del bilancio comunitario. Oggi, invece, quella quota si è ridotta a meno di un terzo: nel 2023 la spesa agricola è scesa al 28% del budget UE e le proiezioni parlano di un ulteriore calo al 25% entro il 2027.
Non è solo una questione percentuale. Nel 1990 la PAC pesava per lo 0,54% del PIL europeo, mentre nel 2023 è scesa allo 0,38%. In termini assoluti significa circa 30 miliardi di euro in meno ogni anno. Risorse che l’Europa ha dirottato verso nuove priorità, dal Green Deal alla difesa, lasciando l’agricoltura in posizione sempre più marginale.
L’Italia perde 5 miliardi
Per l’Italia questo ridimensionamento vale circa 5 miliardi di euro in meno nel settennio 2021-2027, ossia oltre 700 milioni l’anno. A soffrire sono soprattutto i contributi diretti, che da soli rappresentano il 70% del sostegno agli agricoltori. Senza robuste compensazioni nazionali, i pagamenti a ettaro e i sostegni al reddito rischiano di subire un taglio consistente. Il problema è che i tagli arrivano mentre i costi produttivi sono esplosi. Tra il 2021 e il 2023 energia, fertilizzanti e trasporti hanno registrato aumenti medi oltre il 30%. Coldiretti avverte che un’azienda agricola italiana su cinque potrebbe non reggere nei prossimi cinque anni.
Il ridimensionamento colpisce in modo particolare il Sud. La Calabria, in particolare, è tra le regioni più esposte. Nonostante la sua vocazione agricola, con migliaia di aziende impegnate in olivicoltura, agrumi, viticoltura e zootecnia, la regione registra un saldo negativo nella nuova distribuzione dei pagamenti diretti: una riduzione dello 0,8% del peso relativo, mentre altre regioni come Sardegna e Sicilia migliorano grazie al meccanismo di “convergenza”.
Secondo Coldiretti Calabria, oltre 65mila aziende regionali rischiano di essere penalizzate dai futuri assetti della PAC, soprattutto se verrà introdotto il cosiddetto “fondo unico” che ridurrebbe drasticamente i margini dello sviluppo rurale. Negli ultimi dieci anni la regione ha già perso in media 40 milioni di euro l’anno di trasferimenti agricoli, una cifra che ha inciso pesantemente su comparti già fragili.
Un’analisi dell’Università di Perugia ha mostrato quanto la Calabria sia vulnerabile anche agli scenari geopolitici: se l’Ucraina entrasse nell’UE con gli attuali criteri di ripartizione, i fondi per la regione potrebbero dimezzarsi, passando dagli attuali 384 milioni l’anno a meno di 200. Il dato più preoccupante riguarda la struttura produttiva calabrese: per molte aziende agricole la PAC rappresenta oltre il 50% del reddito netto. Senza quegli aiuti, la sopravvivenza economica diventa impossibile. Il rischio è un’accelerazione dell’abbandono delle aree interne e montane, con la perdita non solo di reddito, ma anche di presidio territoriale e tutela del paesaggio. Il taglio delle risorse rischia di indebolire proprio quelle aziende familiari che custodiscono biodiversità, qualità e tradizione, favorendo invece i grandi gruppi agro-industriali capaci di reggere meglio alla competizione globale.
La Commissione europea spinge a concentrare le risorse su sostenibilità e innovazione. Un obiettivo condivisibile, ma che non può tradursi in un colpo mortale per il tessuto agricolo diffuso che caratterizza l’Italia e la Calabria. Se la PAC diventa un paracadute troppo piccolo, incapace di garantire stabilità in tempi di guerre, crisi energetiche e mercati instabili, il rischio è quello di compromettere la sicurezza alimentare e la stessa identità agricola europea. Per l’Italia e per la Calabria, la sfida è doppia: da un lato difendere il valore delle proprie produzioni d’eccellenza, dall’altro costruire politiche nazionali e regionali che compensino il ritiro dell’Europa. In gioco non c’è solo un settore economico, ma un patrimonio sociale e culturale che rischia di andare disperso.