L’ipotesi di aprire un Centro di Accoglienza Straordinaria (CAS) a Campotenese, nel cuore del Pollino, ha suscitato un dibattito acceso. È positivo che se ne discuta, ma servono equilibrio e verità. L’accoglienza va fatta bene e con regole chiare. Per questo serve rafforzare il Sistema SAI, quello pubblico dei Comuni e dell’ANCI, fondato su integrazione e partecipazione, e superare la logica dei CAS, i centri straordinari gestiti dalle Prefetture e spesso imposti ai territori, come nel caso di Campotenese.

L’accoglienza non può restare materia d’emergenza: deve diventare una politica sociale stabile, di competenza del Ministero del Welfare e delle comunità locali. In questo senso, non si può ignorare la responsabilità diretta del governo Meloni, che dopo aver tentato di esportare l’accoglienza in Albania con un progetto fallimentare e disumano, continua a scaricare sui territori interni del Paese le conseguenze di una gestione confusa e priva di visione. La vicenda di Campotenese ne è un esempio evidente.

E fa specie che a riprendere questa linea siano amministratori locali che si richiamano politicamente alla destra di governo, invece di chiedere più strumenti e risorse per gestire l’accoglienza in modo serio e partecipato. Nei giorni scorsi il dibattito si è allargato, dopo le dichiarazioni del sindaco di Morano Calabro, Mario Donadio, che ha contrapposto all’accoglienza il turismo sostenibile e l’agroalimentare di qualità, e ora con la posizione del consigliere comunale Biagio Angelo Severino, che pure richiama il principio di un’accoglienza “sicura e programmata”, ma ritiene Campotenese “non idonea” a ospitare un centro del genere.

Argomentazioni che, al di là delle intenzioni, rischiano di rappresentare un arretramento culturale: si continua a immaginare l’accoglienza come un ostacolo e non come una risorsa. Il punto è un altro: l’accoglienza, se ben gestita, rafforza le comunità, non le indebolisce. Le aree interne della Calabria, dal Pollino alla Sila, non si spopolano per troppa accoglienza: si spopolano per mancanza di persone, di opportunità, di un’idea di futuro e, forse, anche di coraggio. I borghi del Pollino – da Morano a Civita, da Frascineto a Mormanno – vivono oggi al limite e con affanno: di turismo stagionale, di una nicchia strettissima, di piccole produzioni agricole e di tanta fatica quotidiana.

Un centro d’accoglienza ben gestito non toglierebbe nulla a queste esperienze né alle loro ambizioni più alte di futuro: porterebbe invece vita, relazioni, servizi, e potrebbe intrecciarsi con l’economia locale, con l’agricoltura sociale e con il turismo responsabile. Se c’è un modello da guardare, non è quello dell’esclusione ma dell’integrazione: Riace, Badolato, Satriano o Acquaformosa – dove l’accoglienza ha salvato scuole, creato lavoro e ridato vita a un borgo destinato allo spopolamento. La verità è che senza persone, nessuna “vocazione” resiste. E chi guida le nostre comunità dovrebbe saperlo: il futuro delle aree interne si costruisce aprendo, non chiudendo.

Sta qui la sfida che la politica deve saper raccogliere: riconoscere nell’accoglienza un’occasione per guardare al futuro, per costruire sviluppo, solidarietà e nuove opportunità nei territori dimenticati. Occorre, per questo, un impegno forte anche del Partito Democratico, che deve tornare a essere protagonista di una politica capace di unire accoglienza, diritti e sviluppo locale. È un impegno che sento mio e che intendo portare avanti con convinzione, perché una Calabria più giusta, aperta e solidale non si costruisce chiudendo le porte, ma spalancando orizzonti.
*Pino Le Fosse – direzione provinciale Pd Cosenza