Negli ultimi giorni, la discussione politica attorno alla proposta di legge sul consenso ha catalizzato l’attenzione nazionale. Un disegno di legge che, nelle intenzioni, mira a integrare l’attuale disciplina sul reato di violenza sessuale, ma che ha sollevato non poche perplessità tra gli operatori del diritto. Ne abbiamo parlato con l’avvocata penalista Chiara Penna, che ha offerto una riflessione lucida e argomentata sul quadro normativo esistente e sulle reali priorità.

Il reato di violenza sessuale secondo il codice penale

Penna chiarisce subito un punto: «Il reato di violenza sessuale è già ben disciplinato. Il primo comma dell’articolo 609-bis punisce chi costringe taluno a compiere o subire atti sessuali mediante violenza fisica o psicologica. Il secondo comma, invece, copre le situazioni in cui c’è induzione ad atti sessuali approfittando di una condizione di vulnerabilità». La giurisprudenza, spiega l’avvocata, si è ormai adeguata da anni anche alle indicazioni della Convenzione di Istanbul.

«La Cassazione è già intervenuta più volte – continua – per valorizzare il contesto e valutare la condizione psicologica della vittima. Il consenso viene già analizzato, così come il dissenso, che può manifestarsi anche attraverso il “freezing”, cioè la paralisi totale della vittima durante l’aggressione».

L’avvocata penalista riflette sulla proposta di riforma: «La norma già esiste, il concetto di “libero e attuale” rischia di generare confusione»

Le criticità della proposta di riforma

Per l’avvocata Penna, il disegno di legge che introduce il concetto di “consenso libero e attuale” rischia di generare confusione. «L’intento è positivo, ma la formula scelta è ambigua. Cosa significa davvero “libero e attuale”? In quali contesti? Come va dimostrato in sede processuale?».

Una pericolosa deriva, aggiunge, si è già intravista nelle parole di alcuni magistrati. «L’idea che spetti alla difesa dimostrare l’esistenza del consenso è inaccettabile. Nel nostro sistema accusatorio, la prova dev’essere portata dall’accusa. Se si inverte questo principio, il rischio è enorme».

Il nodo politico e la propaganda

A creare ulteriore tensione è stata la retromarcia del Governo sul testo della legge, che inizialmente sembrava godere di un’intesa trasversale tra maggioranza e opposizione. «Ho trovato preoccupante – osserva Penna – che qualcuno sembrasse più dispiaciuto per non aver potuto presentare il pacchetto di riforma il 25 novembre, che non per la mancanza di interventi strutturali veri. È stato tagliato il fondo per i centri antiviolenza, non si investe in formazione né in strumenti come i braccialetti elettronici».

L’avvocata non ha dubbi: «La violenza di genere non è un’emergenza, ma un problema strutturale. E si combatte sul piano culturale, educativo e sociale, non solo sul piano penale».

Il Codice Rosso e i suoi limiti

Ragionando sull’efficacia del “Codice Rosso”, Penna riconosce alcuni progressi. «La norma ha accelerato l’iter di alcune denunce, dando priorità a casi potenzialmente gravi. Ma se pensiamo che basti una corsia preferenziale per risolvere tutto, siamo fuori strada. Il diritto penale arriva sempre dopo: serve prevenzione».

Serve, secondo Penna, un investimento reale in formazione per le forze dell’ordine, in ascolto attento nei presidi di primo contatto, in educazione alla parità sin dalle scuole. «Le donne vengono spesso rimandate a casa, anche davanti a segnali concreti di pericolo».

In attesa della Commissione

La proposta di legge è ora ferma in Commissione Giustizia al Senato. «È giusto attendere le audizioni di magistrati, avvocati, esperti – conclude Penna – ma è indispensabile uscire dalla logica della propaganda. Le leggi devono nascere dal confronto tecnico, non dalle scadenze simboliche».