“Questa è stata la nostra ultima occasione della partita”. Al quinto minuto di gioco, dopo il palo di Millico, mio figlio è riuscito a inquadrare il destino della partita col Pisa: ormai persino lui conosce il Cosenza meglio di me. O meglio questo Cosenza, quello che il Cosenza è diventato in queste diciotto partite.

Credetemi, sono davvero in imbarazzo per quest’ultimo Minamò del 2021, perché mi sembra di ripetere ormai le stesse cose da tre stagioni. E, soprattutto, le stesse cose ogni volta a fine anno (perché sono quattro anni che festeggiamo il Natale in zona retrocessione). In estrema sintesi: non si gestisce così una società di calcio; non si costruisce così una squadra di calcio; non si allena così una formazione di calcio.

Comincio dal primo punto. Nessun “imprenditore”, che avesse davvero interesse al profitto della propria “azienda”, avrebbe accettato di raccogliere i risultati (mediocri) che questa dirigenza ha ottenuto col Cosenza. Dopo la promozione del 2018 e un anno di assestamento, avrebbe invece rilanciato con investimenti forti. Oppure avrebbe accolto la riammissione dell’agosto scorso come il ritorno del figliol prodigo. Avrebbe considerato il Cosenza un “prodotto”, attribuendogli sempre maggiore valore. E invece questa presidenza gestisce il Cosenza calcio proprio come un parvenu sposa una ricca ereditiera. Oggi il Cosenza calcio, infatti, sul mercato vale zero.

Circola molto la tesi secondo cui da questa rosa non sia possibile ottenere di più, perché è la più scarsa della categoria. Io non penso che sia così. Non è stato solo fortuna il filotto di risultati del settembre scorso. Certo, incontrare avversari molli (Vicenza, Crotone) ha aiutato, ma in quel periodo abbiamo affrontato anche Perugia, Como e Ternana senza sfigurare (e anzi).

Il Cosenza in quella fase ha lavorato bene. Forse ha volato persino troppo in alto e, con la sconfitta di Alessandria, le cose hanno cominciato a incepparsi. Da quel momento in poi le difficoltà hanno divorato questa squadra e ora, più che un allenatore, servirebbe un esorcista. Perché, quando una squadra senza leader si smarrisce, a ritrovarsi è un casino.

Se vi capita, leggete Calcio liquido di Emiliano Battazzi. Nella sua semplicità è un libro che serve a ricordare come Arrigo Sacchi vinse uno scudetto con Angelo Colombo esterno di centrocampo, Zdenek Zeman abbia salvato il Foggia con Sciacca e Caini e le principali innovazioni in serie A degli ultimi anni (Sarri, Paulo Sousa) siano nate in contesti provinciali (l’Empoli del 2014) o di decrescita infelice (la Fiorentina del 2015). Un buon allenatore fa sempre la differenza. Un buon allenatore arriva in un contesto depresso e lo rilancia (Tudor a Verona). Un buon allenatore fa anzitutto il brodo con le galline vecchie che trova. E poi pretende galline giovani. Noi, negli ultimi tre anni, non abbiamo mai trovato né l’uno né l’altro.

È ovvio che il Cosenza a disposizione di Occhiuzzi (e di Zaffaroni prima) non è l’Atalanta di Gasperini, ma è pure chiaro che contro il Pordenone era lecito attendersi molto di più, che di fronte a un Pisa decimato dal Covid era doveroso predisporre almeno uno straccio d’idea tattica che non fosse gettare Palmiero e Carraro in mezzo ai leoni.

Perché poi c’è pure questo: che quando ti “disunisci”, fai una fatica immonda a ritrovarti. E questa squadra sarebbe più facile ricostruirla daccapo a gennaio che aiutarla a rimettersi in carreggiata.

È stata la mano di Dio è un film che mi ha emozionato moltissimo. Evito di spoilerare per chi non l’avesse ancora visto, ma la scena in cui il regista-mentore Capuano esorta Fabietto a non “disunirsi” è davvero troppo vicina alla situazione che stiamo affrontando. Il protagonista del film di Sorrentino non ascolterà quell’invito, si “disunirà” dalle proprie radici, da Napoli, per ritrovare se stesso al di là del dolore che prova.

Ovviamente il dolore di Fabietto (e del Sorrentino vero) e il nostro non sono minimamente paragonabili, ma in questi anni non mi era mai capitato di sentire tifosi del Cosenza confessarmi a dicembre (a dicembre!) di aver disdetto l’abbonamento tv, di aver smesso di seguire le partite a tutela della propria sanità mentale. Persino mio figlio, che segue il Cosenza da pochi anni, dopo il palo di Millico si è messo a giocare per conto proprio e, all’inizio del secondo tempo, mi ha convinto ad andare al parco. Significa che davvero la misura è colma.

Allora, disuniamoci. Spesso si accusa il pubblico cosentino di essere umorale, facile ad appassionarsi quanto a disamorarsi. Beh, io invece non ho mai visto una tifoseria dare tante opportunità a una dirigenza che avesse fatto così tanti errori. Credo quindi che sia arrivato il momento di disunirsi. E cioè che la tifoseria smetta anche di “incitare solo la maglia” (pure perché, quasi a sfregio, quella indossata sabato era davvero inguardabile). Che il Marulla resti finalmente vuoto e che questo non arrivi dopo l’esame d’appello del mercato di gennaio, ma prima, e cioè a consuntivo di quattro campionati di serie B che questa piazza aveva atteso per quindici anni ed è stata invece ridotta a vivere come un’agonia. Che lo “spettacolo” sia riservato a un solo spettatore: il manovratore. Per parte mia mi disunisco da questo blog almeno fino al nuovo anno, perché continuare a parlare di tutto questo significa legittimarlo.

Per citare infatti un’altra sequenza del film che rappresenterà l’Italia agli Oscar, è vero, “la realtà è scadente”, ma ci sono dei limiti – di decenza, soprattutto – ed è giusto che vengano rispettati. O fatti rispettare.