Umiliata e discriminata. Giuditta Greco, 35 anni, non ha dubbi, è così che si è sentita durante il suo ricovero in due ospedali di Roma, avvenuto a seguito di un malore accusato qualche giorno fa. La giovane, originaria di Praia a Mare, è non vedente dalla nascita e vive nella Capitale ormai da un anno. Secondo il suo racconto, sarebbe stata proprio la cecità a generare il pregiudizio in alcune persone che l’hanno avuta in cura, portandole a pensare che la paziente non possa badare a sé stessa o che, addirittura, non sia in grado di mangiare o andare in bagno da sola.

Giuditta, al contrario, è anche più autonoma di molti suoi coetanei. Dei suoi 35 anni, 20 li ha passati lontano da casa, imparando a costruirsi la sua autonomia, con fatica e sacrificio, mattoncino su mattoncino. Oggi vive la vita come tutti i ragazzi della sua età e difende a spada tratta i suoi diritti. E’ per questo che ha deciso di denunciare quello che sarebbe accaduto in due diverse strutture sanitarie. A un certo punto si sarebbe sentita «un fenomeno da circo». Inoltre, i suoi famigliari, si accorgono che la giovane presenta un enorme livido su un braccio, proprio nel punto in cui i sanitari le avrebbero somministrato una flebo durante i soccorsi. Ma di questo nessuno l’avrebbe informata.

Il malore e il ricovero in ospedale

Giuditta vive fino ai 15 anni a Praia a Mare, paese che le ha dato i natali. Poi si trasferisce a Napoli per vivere in un istituto per non vedenti. Qui impara a gestire la sua vita, acquisisce autonomia, trova il suo posto nel mondo. Giuditta ha una vita come tutti i suoi coetanei, esce, si diverte, prende i mezzi.

La cecità è una condizione con cui ha imparato a fare i conti ma che non le impedisce di vivere un’esistenza normale e nemmeno di andare a vivere nella Capitale, dove si è trasferita da un anno. Qualche giorno fa si sente male. Ha una crisi respiratoria in piena notte e chiede aiuto, poco dopo un’ambulanza la trasporta in codice arancione al pronto soccorso di un ospedale pubblico. Tutto sommato, si riprende in fretta. Alle 10 del mattino è lei ad avvertire la madre.

La donna prepara le valigie più in fretta possibile e dopo circa cinque ore di viaggio la raggiunge. Una volta arrivata nel piazzale del nosocomio, scopre però che non può farle visita. I responsabili le dicono che fuori dagli orari prestabiliti non è possibile entrare nel reparto in cui, nel frattempo, è stata trasferita la paziente. La donna, armata di pazienza, attende e ci riprova il giorno successivo. Riuscirà ad abbracciare la figlia soltanto nel pomeriggio, trentasei ore dopo il malore.

Il pannolone e quel livido sul braccio

Quando sua madre, finalmente, riesce ad entrare in corsia, ha quasi un mancamento. La ragazza è stesa in un letto circondato da due sponde di contenzione e indossa un pannolone, come quegli anziani colpiti da demenza senile che non riescono più a tenere a bada i propri istinti. I sanitari le dicono che il pannolone, solitamente utilizzati in caso di incontinenza, si è reso necessario perché la 35enne non può andare da sola in bagno, rischierebbe di avere un giramento di testa e cadere. Ma non lo tolgono nemmeno con il passare dei giorni e il miglioramento delle condizioni di salute: «Non c’è nessuna infermiera disponibile a portarti sempre in bagno», dicono testualmente alla paziente, che continuava a chiedere spiegazioni. 

La sensazione, dirà la giovane ai famigliari, è che in ospedale siano convinti che lei non sia in grado di muoversi in autonomia, neppure per pochi metri, o badare a sé stessa. Sul braccio, poi, ha un livido enorme, provocato quasi certamente dalla puntura di una flebo. Nessuno si sarebbe preoccupato di avvertirla della presenza di quella estesa ecchimosi sulla pelle.

Il ricovero nella clinica privata

Al terzo giorno di ricovero in ospedale, i medici decidono di trasferire la paziente in una clinica privata convenzionata. Sua madre tira un sospiro di sollievo, nella speranza di potersi mettere alle spalle quei giorni difficili. E invece l’incubo continua. I famigliari riescono a vedere la ragazza soltanto il giorno successivo.

Le motivazioni che li tengono fuori dalla struttura sono sempre le stesse, gli orari da rispettare e le restrizioni anticovid, ancora loro. Qui, inoltre, la paziente sarebbe stata umiliata più volte. «Ma tu riesci a mangiare da sola? Non ci credo – si sarebbe sentita dire da alcune infermiere -, fammi vedere». E’ stato in quel momento che la ragazza si è sentita trattata come un animale da circo, un fenomeno da baraccone, osservata mentre compie l’azione più naturale del mondo. «Se avessi avuto la vista – si chiede Giuditta – mi avrebbero detto le stesse cose?». Un’infermiera si sarebbe stupita persino vedendola in piedi, mentre raggiungeva alcuni amici in sala d’attesa. «Ma quindi cammini?», avrebbe chiesto l’operatrice sanitaria. «Avreste dovuto sentirla – dice la 35enne in un audio inviato alla sorella sul cellulare -, mentre lo chiedeva sembrava allucinata». Chissà cosa penserebbe l’infermiera se sapesse che Giuditta sa usare anche il cellulare.

Il vile pregiudizio

La giovane praiese è ancora ricoverata in ospedale e fortunatamente le sue condizioni di salute stanno rapidamente migliorando. Ma per lei è molto difficile dimenticare quello che ha passato in questi giorni. Gli infermieri si rivolgerebbero a lei scandendo bene le parole, aiutandosi con i vezzeggiativi, come si fa quando ci si rivolge a un bambino. «E’ incredibile notare quanta ignoranza circondi le persone non vedenti – dice ancora Giuditta -. A volte ci trattano come se avessimo un ritardo mentale o come se le nostre capacità cognitive non fossero pienamente sviluppate». Tutt’altro. «La mancanza della capacità visiva ci fa sviluppare altri sensi, come l’udito e l’olfatto, rendendoci particolarmente sensibili a suoni e odori».

La ragazza è molto provata, si è sentita discriminata per via della sua cecità. «Sì – conferma -, discriminazione è il termine adatto per descrivere quello che ho subito». Un fatto inaccettabile. Per questo ha deciso di denunciare quello che le è accaduto. «Nessuno deve sentirsi inadeguato o preso in giro. Denuncio questi episodi perché non accadano mai più e per sensibilizzare quanti leggeranno la mia storia». La cecità fa rima con normalità ed è ora che tutti ne prendano atto.