Pasquetta macabra a Cassano, le ultime ore di Gianfranco “A ‘ntacca”
Uno degli omicidi più feroci commessi dalla 'ndrangheta cosentina fu consumato proprio in un giorno di festa di ventitré anni fa
Morì e fu sepolto. E a guardia della sua tomba posero un cane. Morto pure quello. La Pasquetta più lugubre di Cosenza e Cassano allo Jonio risale al 2001. La ricorrenza, quell’anno, cade il 16 aprile: è anche il giorno in cui Gianfranco Iannuzzi alias “A ‘ntacca” lascia questo mondo. Aveva iniziato la propria carriera criminale negli anni Ottanta, come fiancheggiatore del gruppo Pino, ma in seguito si lega al clan dei nomadi, più precisamente al capobastone d’allora, Franco Bevilacqua detto “Franco i Mafarda”, con il quale condivide anche degli omicidi.
Sarà lo stesso “Mafarda”, infatti, a rivelare la sua partecipazione al duplice omicidio Chiodo-Tucci, consumato in via Popilia nel 1999. Due anni dopo, però, la campana suona a morto anche per lui. A decretarne involontariamente la fine, è proprio il suo capo che, con il suo pentimento, instilla negli ex compagni il timore che pure Iannuzzi possa collaborare con la giustizia. E così, quel 16 aprile lo attirano a Cassano con un tranello.
L’agguato avrebbe dovuto compiersi già alcuni giorni prima a Gioiosa Jonica, ma alla fine la vittima non si trattiene a sufficienza per consentire ai sicari di attentare alla sua vita. Quel giorno di Pasquetta, però, va direttamente incontro alla sua sorte. Lo convocano col pretesto di eseguire il sopralluogo per una futura rapina e, invece, lo portano in una zona di campagna, dove ad attenderlo c’è un colpo di pistola in testa.
Il resto è un racconto dell’orrore. Gli assassini lo finiscono a colpi di piccone e il suo corpo viene seppellito in tutta fretta e a pochi centimetri di profondità a ridosso del ciglio della strada. Dopo qualche giorno, però, l’odore pungente della morte comincia ad avvertirsi. Il rischio è che possa attirare l’attenzione di qualche passante. Il rimedio adottato è in linea con la crudeltà di quelle ore: uccidono un cane e poi ne trascinano la carcassa lì, dove era stata ammazzata la Ntacca.
A svelare questi e altri dettagli macabri è il pentito Pasquale Perciaccante, lo stesso che sette anni più tardi, guiderà i carabinieri sul luogo del delitto, consentendo così il ritrovamento dei suoi resti. “Cataruozzolo”, questo il suo nome di battaglia, sa dove si trova il corpo perché ha partecipato ai lavori di occultamento del cadavere. All’epoca, la sua regola d’ingaggio passa da una lugubre metafora pasquale: «Mi dissero che c’era da seppellire un capretto. E io ho capito che si parlava di un morto».