Cosenza ’82, guerra nelle strade e tregua in tribunale
Attentati reciproci scandivano la quotidianità degli uomini di Pino e Perna, ma se qualcuno di loro finiva sotto processo allora scattava il mutuo soccorso
Quando un uomo di Franco Perna incontra un uomo di Franco Pino, quello di Perna è un uomo morto. O viceversa. Ma se uno di loro finisce nei guai con la legge, allora il discorso cambia. Ogni rancore, feroce e reciproco, finisce per essere messo da parte. E scatta il mutuo soccorso tra nemici. Accade anche questo negli anni ruggenti della guerra di mafia a Cosenza, quando gli uomini si sparano addosso con l’obiettivo condiviso di cancellarsi l’un l’altro dalla faccia della terra. Una disputa in cui non c’è posto per un terzo incomodo come lo Stato.
In quegli anni, infatti, le poche volte che la Legge riesce a incriminare un membro delle due bande in lotta, anche gli uomini della cosca nemica si prodigano in sua difesa. Fabbricano prove false e, se è il caso, testimoniano in loro favore ai processi. Come se il tribunale sia una sorta di “città aperta”, una zona franca in cui deporre le armi per non combinare guai peggiori. E poi, una volta fuori dall’aula, nemici come prima. Va così nel 1982 quando i killer di Perna tendono un agguato a Pino e uccidono al posto suo Mario Lanzino; in quel caso un emissario del boss dagli occhi di ghiaccio è inviato a deporre in favore degli attentatori che, nel frattempo, la giustizia era riuscita a individuare.
Una cortesia che di lì a poco avrebbe ricambiato Roberto Pagano. In quello stesso anno, infatti, ammazzano Antonio Chiodo, 17 anni appena, fratello di Silvio e Aldo, entrambi “continuisti” di Perna. E Pagano, affiliato alla consorteria offesa, testimonia in favore degli assassini. Dato che il corpo del giovane è stato bruciato, il riconoscimento avviene grazie a un anello che portava al dito. Pagano si presenta in aula con un gioiello identico, affermando che la vittima «gliel’aveva regalato poco tempo prima», ergo quel cadavere non poteva essere il suo. Il tentativo non servirà a salvare gli imputati dalla condanna.
Funzionava così in pubblico, ma nelle segrete stanze la musica cambiava. «Qui sono tutti informatori miei, tranne tu. Come la mettiamo?». Il pentito Nicola Notargiacomo sostiene che, un giorno, l’allora capo della Squadra Mobile, Nicola Calipari, si sia rivolto a lui in questi termini provocatori. Parole dettate anche da risentimento e, quindi, da non prendere alla lettera, ma comunque rappresentative di un’epoca.
Viceversa, se il tribunale era terra di nessuno, il vecchio carcere di colle Triglio rappresentava una sorta di prima linea. È lì che muore Mario Lanzino e, due anni prima di lui, Carlo Mazzei, ucciso a colpi di trincetto da calzolaio mentre si fa la barba in cella. Attentati reciproci, anche dinamitardi, scandiscono la vita quotidiana all’interno dei padiglioni che accolgono gli ospiti in base alla loro appartenenza criminale.
La tregua, in quel luogo di afflizione, rappresenta solo un’eccezione che si materializza il 23 novembre 1980. Quel giorno, anche Cosenza è sfiorata dal terremoto che sconvolge l’Irpinia. Per motivi di sicurezza, tutti i detenuti vengono radunarono nel cortile interno e, in quel frangente, le antiche divisioni sono messe da parte in nome di una paura condivisa. Racconta Vincenzo Dedato che, proprio in quelle ore turbolente, Carlo Rotundo parla con Mario Pranno, transfuga del clan Perna, e lo convince a rientrare nel gruppo.
Non si parla con gli sbirri. Una vecchia regola aurea che per gli uomini d’ambiente valeva ieri e vale ancora oggi. Non a caso, l’argomento è sfiorato anche in una delle tante intercettazioni di “Reset” che riguardano Francesco Patitucci. A colloquio con uno dei suoi fidati, nel 2019, il boss rievoca il periodo della sua recente carcerazione e lamenta l’isolamento da lui percepito negli anni trascorsi dietro le sbarre. A ferirlo erano state le chiacchiere relative a una sua collaborazione con la giustizia circolate in quel periodo e ancor più il fatto che qualcuno del suo gruppo stesse cercando conferma a quei pettegolezzi. «Si è messo a fare indagini, ma ti rendi conto. E che sei, un carabiniere? I carabinieri le fanno le indagini». A ciascuno il suo. Giusto così.