giovedì,Maggio 22 2025

Massimo Speranza, l’ultimo “specchietto” di Cosenza

Il giovane fu ucciso dalla 'ndrangheta nel 2001 perché sospettato di fare la spia, vent'anni prima ad altri suoi coetanei toccò la stessa sorte

Massimo Speranza, l’ultimo “specchietto” di Cosenza

Li chiamavano “specchietti” ed era sinonimo di spie. Ragazzi incensurati, a volte minorenni, che ai tempi della prima guerra di ‘ndrangheta a Cosenza, si dedicavano a osservare i movimenti del nemico e poi andavano a fare rapporto ai grandi del gruppo, che ne facevano poi tesoro in previsione di qualche agguato. Molti di loro, hanno fatto una brutta fine.

Accadeva negli anni Ottanta, una vita fa, ma la parola «specchietto» è sopravvissuta a quel periodo luttuoso e ha attraversato i decenni successivi per entrare nel nuovo millennio. Massimo Speranza è stato, probabilmente, l’ultimo degli specchietti.

Gli contestavano questo: di fare da spola tra il gruppo dei nomadi e quello degli “italiani” per poi andare a riferire a quest’ultimi i segreti industriali dei primi. Il tutto con un’aggravante: il “Brasiliano”, infatti, era contiguo al gruppo che lo accusava di alto tradimento.

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Vent’anni prima, invece, chi riceveva i gradi scomodi e pericolosi dello “specchietto” faceva una scelta di campo precisa, almeno per quello che la giovane età gli poteva garantire in termini di consapevolezza. Gli specchietti erano un reparto scelto ed esclusivo del clan di Franco Pino.

Ad arruolarli era per lo più Umile Arturi, e in sella ai loro motorini passavano e spassavano davanti ai luoghi di ritrovo dei nemici. La piazza Piccola nel centro storico e le piazzette del rione San Vito erano le loro mete predilette. È in uno di quegli angoli nascosti della città che si consuma il destino di Francesco Scaglione.

Una carta d’identità sbiadita dal tempo è tutto ciò che rimane di lui e dei suoi diciott’anni di allora. L’aveva lasciata a casa quel pomeriggio del 9 settembre 1983, quando come al solito esce in sella al suo ciclomotore Piaggio e con in tasca, soltanto mille lire. Sarà quella la preoccupazione di sua madre nel momento in cui andrà a denunciarne la scomparsa. Ignorava, però, come quel figlio fosse già morto e che il suo corpo bruciava tra i boschi della Sila.

Il suo appostamento fu notato nei pressi della clinica del Sole e per farlo confessare bastò un ceffone in pieno viso. Seguì uno sparo, poi il rogo che incenerì il suo corpo. Come nelle fiabe, però, passò di lì un cacciatore che notò subito il falò con un gruppetto di persone attorno.

Per sviarlo, i carnefici gli dissero che stavano facendo un pic-nic, poi lo agganciarono qualche ora più tardi, chiedendogli se si era accorto di qualcosa. «Mi disse che aveva sentito odore di patate» riferirà in seguito il pentito Angelo Santolla.