I casi di presunte violenze segnalate dai Garanti dei detenuti all’interno di numerosi istituti penitenziari, tra cui quello di Monza, di Tolmezzo e di San Gimignano, non fanno altro che confermare la situazione di collasso vissuta dalle carceri italiane. Addirittura quanto probabilmente accaduto all’interno del carcere toscano ha spinto l’autorità giudiziaria a disporre la sospensione immediata di quattro agenti penitenziari, perché accusati di tortura nei confronti di un detenuto straniero, nonché di lesioni personali e falso ideologico. Il problema delle presunte violenze si aggiunge, pertanto, al dramma del sovraffollamento e dei suicidi in carcere in aumento, evidenziando così la realtà devastante che investe l’intero sistema penitenziario.

Suicidi, numeri in aumento: quali le cause?

Il numero dei suicidi, d’altronde, non solo risulta essere collegato evidentemente all’invivibilità riscontrata all’interno degli istituti, ma è probabilmente sottostimato. Momento critico non è, infatti, solo l’ingresso in carcere, attimo nel quale il detenuto viene più adeguatamente supportato e monitorato, ma tutta la permanenza in carcere: restano alti i numeri dei suicidi di chi paradossalmente è giunto a fine pena, a causa della mancanza totale di prospettive e dell’impossibilità di intravedere un futuro dopo anni di detenzione. Cercare la giustificazione di tali gesti nel disturbo mentale, nella tossicodipendenza o nella difficoltà di accettare la propria condizione, appare semplicistico e non è la strada giusta per affrontare il problema, così come poco efficaci appaiono gli interventi punitivi nei confronti di chi sopravvive.

Il tentativo di suicidio compiuto in carcere è, infatti, addirittura punibile disciplinarmente, aggravando così il disagio del ristretto che, oltre ad essere privato della libertà, avverte la sensazione di non poter trascorrere utilmente la detenzione. La verità è che il tempo della pena è tempo vuoto, vissuto in Istituti sempre più cadenti e affollati, dove i progetti formativi vengono ostacolati e dove si sopravvive senza alcuna dignità sociale, cosa che dovrebbe invece essere garantita soprattutto a chi è ancora giudicabile.

Il ruolo dell’agente penitenziario

È una situazione complessa che l’opinione pubblica preferisce spesso ignorare, non considerando il fatto che tutto si incastra negativamente anche con quanto vissuto dal personale di polizia penitenziaria, spesso sopposto a turni stressanti e sotto organico. Se è difficile, infatti, integrare l’istanza punitiva con quella della rieducazione, è altrettanto complessa la definizione concreta del ruolo ambiguo di chi è chiamato a mettere insieme due aspetti difficilmente conciliabili: la repressione e la riabilitazione. Gli agenti sono in continuo contatto con il dolore, la disperazione, l’aggressività, la rabbia e le esigenze dei detenuti, ma nello stesso tempo devono mantenere una posizione di distacco e superiorità al fine di valutare quali richieste soddisfare nel rispetto del proprio ruolo. Affrontare da soli tutto questo, tra le mura del carcere e senza gli strumenti adatti, può far quindi perdere lucidità.

L’affollamento nelle carceri italiane

Nei casi più gravi può portare ad un vero e proprio cortocircuito mentale noto come sindrome del burnout, vale a dire dell’operatore “bruciato“, che ha conseguenze evidenti nella vita privata o genera forme di violenza come quelle registrate. Al fine di rispondere adeguatamente a questa emergenza, invece di proporre soluzioni superficiali – come ad esempio la creazione di nuovi istituti per superare il problema dell’affollamento – si dovrebbe allora ragionare sulle motivazioni che spingono al compimento delle azioni violente, sul momento in cui si verificano e sulle condizioni di detenuti e personale che opera all’interno delle carceri.

La reazione adeguata sarebbe innanzi tutto quella di allontanarsi dalla visione che sta andando purtroppo diffondendosi relativamente allo scopo prettamente punitivo della carcerazione, manifestazione quest’ultima evidente di un arretramento culturale per quanto riguarda il senso della pena. La tutela della salute di tutti i soggetti coinvolti è poi, preciso dovere etico, oltre che giuridico, poiché la pena detentiva non deve implicare né la compromissione dei diritti umani fondamentali né l’umiliazione di chi sconta una condanna.