L’ormai ex azionista del clan dei nomadi di Cosenza potrebbe essere coinvolto in almeno tre casi di lupara bianca avvenuti in città nel 2001 e a tutt’oggi ancora irrisolti
Tutti gli articoli di Cronaca
PHOTO
Angioletto, il cinese, il giapponese e poi Faccia di ghiaccio, quello che, forse, lo rappresenta di più. Gli innumerevoli alias associati nel tempo a Luigi Berlingieri non sono solo il sintomo di un’indecisione formale da parte degli investigatori, ma il tratto distintivo di un uomo che, prima di iscriversi nell’elenco giù nutrito dei collaboratori di giustizia cosentini, è stato una delle figure più enigmatiche della ‘ndrangheta locale.
Volto storico del clan dei nomadi, muove i primi passi da rapinatore nella batteria che, tra la fine del vecchio millennio e l’inizio del nuovo, terrorizza le strade di Calabria, Puglia e Basilicata con colpi ai furgoni portavalori eseguiti in stile paramilitare. Sono i giorni in cui il suo compagno d’arme Franco Bruzzese, da un’auto in corsa, riesce a centrare con precisione le ruote degli automezzi da assaltare. Lo fa utilizzando un kalashnikov, l’arma che in quel periodo diventa un biglietto da visita del gruppo. E che “Faccia di ghiaccio” impara a maneggiare.
Il 9 novembre del 2000, infatti, c’è pure lui sull’auto che muove in direzione via Popilia a caccia di nemici da abbattere. Gli altri impugnano le pistole, a Berlingieri tocca per la prima volta il kalashnikov. È con quello che troveranno la morte Aldo Benito Chiodo e Francesco Tucci, falciati da raffiche così potenti da suscitare stupore persino nel mitragliere: «Le persone cadono come pupazzoli», dirà con innocenza sulfurea dopo l’agguato.
«Una delle persone più rappresentative del mio gruppo» lo definirà in seguito Franco Bruzzese, uno che ha intrapreso la strada collaborativa prima di lui e che, già da tempo, gli assegna un ruolo di primo piano in altri omicidi avvenuti nello stesso periodo. A suo dire, infatti, Berlingieri avrebbe partecipato anche agli omicidi di Gianfranco Iannuzzi, Antonio Benincasa e Sistino Bevilacqua, quest’ultimo stordito con un taser prima di essere portato sul patibolo.
È la scia di sangue lasciata in città dai nomadi nel 2001 e a cui avrebbe preso parte in modo più che attivo anche Berlingieri. Tre casi di lupara bianca, ancora irrisolti, bilancio parziale di un ciclo di epurazioni interne al gruppo criminale avviato dopo il pentimento di Franchino ‘i Mafarda. Il timore era che anche queste persone potessero collaborare con la giustizia ed è una psicosi che, nel 2010, ha rischiato di travolgere lo stesso Berlingieri, se è vero, come racconta ancora Bruzzese, che in quel periodo anche per lui era pronta una tomba senza nome in cui seppellirlo.
Omicidi ancora in cerca d’autore sui quali, verosimilmente, il neopentito potrebbe aggiungere qualche particolare decisivo. Prima di compiere il grande passo, era in carcere per scontare i trent’anni di carcere incassati per il duplice delitto Chiodo-Tucci e un ergastolo, ancora non definitivo, per l’uccisione di Luciano Martello, il boss di Fuscaldo ucciso nel 2003. In precedenza, aveva dribblato le condanne di “Ultimo assalto”, il processo sul suo passato da rapinatore ed era uscito indenne anche da “Reset” dove rispondeva di associazione mafiosa.