La Suprema Corte conferma le condanne per la richiesta di “pizzo” e lesioni, ma rinvia sul riconoscimento del “metodo mafioso”
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La Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso presentato dai difensori di Luigi Abbruzzese e Antonio Pavone, condannati in primo e secondo grado per estorsione aggravata e lesioni, reati commessi a Cassano allo Ionio nel gennaio 2013. Entrambi erano stati riconosciuti colpevoli dal Tribunale di Castrovillari nel 2022 e la condanna era stata confermata dalla Corte di Appello di Catanzaro nel novembre 2024.
Le difese avevano sollevato diversi motivi di ricorso, contestando la valutazione della prova, la ritenuta sussistenza degli elementi dell’estorsione e, soprattutto, l’applicazione dell’aggravante del “metodo mafioso”. In particolare, i legali hanno sostenuto che le dichiarazioni iniziali delle persone offese – successivamente ritrattate – fossero state acquisite illegittimamente e senza adeguati riscontri, e che la condotta degli imputati non fosse idonea a evocare la forza intimidatrice tipica delle organizzazioni mafiose.
La Cassazione ha ritenuto infondate le doglianze relative alla responsabilità penale, confermando che il quadro probatorio – dalle denunce iniziali ai riconoscimenti fotografici, dai referti medici alle testimonianze dei carabinieri – fosse sufficiente a giustificare la condanna per estorsione. Secondo i giudici, la successiva ritrattazione delle vittime non ha intaccato la solidità delle prove raccolte.
Diverso il discorso sull’aggravante di mafia. La Suprema Corte ha osservato che la Corte d’Appello si è limitata a motivare richiamando la modalità a volto scoperto e l’ostentazione di sicurezza degli imputati, senza approfondire se vi fosse stato un effettivo ricorso alla forza intimidatrice riconducibile a un gruppo mafioso organizzato. In altre parole, non basta che un’estorsione ricordi lo schema del “pizzo” per configurare automaticamente il metodo mafioso: occorre dimostrare un collegamento concreto con la capacità intimidatoria di un sodalizio criminale.
Da qui la decisione di annullare la sentenza impugnata limitatamente alla contestata aggravante e rinviare il giudizio alla Corte d’Appello di Catanzaro per un nuovo esame su questo punto. Per il resto, i ricorsi sono stati dichiarati inammissibili, rendendo definitive le condanne per estorsione e lesioni.
Nell’ambito di un’estorsione, il “metodo mafioso” non può essere presunto per la sola violenza o minaccia, già elemento costitutivo del reato, ma richiede la prova che la condotta richiami in modo evidente la forza intimidatrice di un gruppo mafioso.
In definitiva, la pronuncia può assumere rilievo anche per altri procedimenti: in quanto conferma la necessità, per i giudici di merito, di distinguere tra l’estorsione comune e quella che si avvale del potere intimidatorio delle organizzazioni criminali, evitando sovrapposizioni che finirebbero per estendere in modo improprio la circostanza aggravante.