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Tremila euro per i capi dietro le sbarre, duemila per quelli in circolazione, solo mille per i soldati semplici e compenso settimanale (oppure a prestazione) per gli spacciatori al dettaglio. Sono questi i compensi che la malavita cosentina assicurava ai propri affiliati prima che su di essa si abbattesse la scure dell’operazione “Reset”. Soldi che provenivano, per lo più, dai proventi di droga e usura confluiti nella bacinella. I guadagni ottenuti con le estorsioni, invece, preferibilmente erano destinati ad altro.
È un piccolo trattato di ragioneria criminale quello che viene fuori dagli atti d’indagine dell’inchiesta antimafia. Molte intercettazioni, infatti, documentano gli sforzi messi in campo dalle alte gerarchie dei clan locali per assicurare, alla fine di ogni mese, una fonte di sostentamento alle loro truppe. Per farlo, predispongono annualmente una sorta di Bilancio, sull’esempio delle piccole e medie aziende o delle amministrazioni comunali. Cambia la sostanza, ma la forma è analoga. Tenere la contabilità in ordine, però, non è impresa facile. Nel corso degli ultimi anni, più d’una volta la litigiosità interna e la crisi economica (colpisce tutti, nessuno escluso) hanno messo a dura prova la stabilità della Confederazione cosentina.
Per i boss della cosiddetta “vecchia scuola”, l’assillo principale è quello di assicurare un’entrata a chi è in carcere e ai loro familiari. I dialoghi che vedono protagonista Francesco Patitucci, ad esempio, vertono principalmente su questo tema. Da una captazione del 2020, che lo vede a colloquio con Michele Di Puppo, emerge che la cifra stanziata ogni mese in favore di questa categoria ammonta a diciassettemila e cinquecento euro. «Facciamo diviso quattro» convengono i due, che per gli investigatori equivale alla conferma di un sospetto, ovvero che tale onere ricada sulle spalle di un quadrunvirato che include Salvatore Ariello e Renato Piromallo.
Della quinta fa parte pure Roberto Porcaro che, però, in quel periodo si trova dietro le sbarre e non può provvedere di par suo. Anzi, anche lui rappresenta ora un “costo” per l’organizzazione. Si è allora in piena emergenza Covid, il che ha comportato un drammatico calo delle entrate. E così Patitucci valuta di stornare dal Bilancio della cosca i proventi di una rapina, circa quarantacinquemila euro. Il boss è uno che, per dirla con Daniele Lamanna, «la macchina criminale sa farla girare bene». I guai, semmai, si registrano quando non è lui a gestire in prima persona la contabilità del gruppo.
Quello più grosso si verifica nel 2017 durante la reggenza Porcaro e comporta addirittura lo stop all’erogazione degli stipendi a tutti gli affiliati. In seguito, i rapporti turbolenti fra il nuovo capo e il duo Piromallo-Ariello finiranno per peggiorare la situazione, ripercuotendosi anche sull’amministrazione finanziaria del clan. Patitucci cerca di metterci una pezza, ma la sua opera di mediazione si scontra con diffidenze reciproche e rancori che ormai avvelenano i rapporti personali fra i suoi gerarchi. «Speriamo che a qualcuno non venga in mente di rompere il giocattolo» tuona il boss alla vigilia di un summit di mafia decisivo. Non accadrà, ma a quel punto la Dda di Catanzaro è già vicinissima. E di lì a poco sia lui che gli altri avranno altri problemi con cui confrontarsi.