«Allora sono… i cinque e i cinque me li devi dare… perché mi servono per stipendià». Così Francesco Patitucci, boss della cosca cosentina, parlava con un imprenditore e gestore di un distributore di carburante a Mendicino, nel pieno di una riscossione estorsiva collegata a un prestito usurario. La vicenda, descritta in maniera dettagliata nella sentenza Reset, coinvolge quattro distinti capi d’imputazione (29, 30, 31 e 32) e almeno tre soggetti principali: Patitucci, Roberto Porcaro e Marco Saturnino.

Il primo prestito, oggetto dei capi 29 e 30, sarebbe stato elargito da Porcaro nel 2018, per un importo di 100mila euro. In cambio, l’imprenditore avrebbe dovuto versare tra i 3mila e i 5mila euro al mese, «a titolo di interessi», senza che il capitale venisse intaccato. Quando Porcaro fu arrestato nell’operazione “Testa di Serpente“, nel 2019, il testimone passò a Patitucci, che – secondo il gup del tribunale di Catanzaro Fabiana Giacchetti – «si serviva del significativo contributo di Rosanna Garofalo e di Silvia Guido» per le riscossioni.

Leggi anche ⬇️

Una conversazione captata l’1 aprile 2020 tra Patitucci, Garofalo e Guido confermerebbe l’operazione in corso: «Andre’, tieni telefoni?… lascialo per piacere perché… dopo la situazione nostra», raccomanda Garofalo, per evitare intercettazioni. Subito dopo, le due donne avrebbero raggiunto il distributore gestito dalla persona offesa.

Nei giorni successivi, Patitucci avrebbe incaricato un altro imputato di Reset di rintracciare la vittima. Il boss di ‘ndrangheta avrebbe impartito precise istruzioni: «Digli: “Andrè dove sei… non ti stiamo vedendo alla benzina”», riferimento inequivocabile all’attività lavorativa della persona offesa.

Leggi anche ⬇️

Il 18 aprile 2020, l’imprenditore si presenta a casa di Patitucci. Il boss gli intima di saldare almeno la metà di 10mila euro entro una settimana, giustificando la richiesta con la necessità di «pagare gli stipendi agli associati del suo clan»: «Cinque in settimana me li devi dare… devi vedere come devi fare», dice Patitucci, aggiungendo: «Io non è che ti voglio mettere il coltello… te l’ho detto anche l’altra volta».

L’imprenditore prova a spiegare le sue difficoltà economiche, aggravate dalla pressione esercitata da un altro soggetto, Marco Saturnino. Patitucci replica: «Lui a casa mia era venuto… colà… dice… e io… “Tu non gli fai proprio niente perché è un mio amico”». Ma poi chiarisce che le sue pretese restano prioritarie: «Prima veniamo io e Roberto».

Leggi anche ⬇️

Il 27 aprile 2020, la persona offesa torna da Patitucci per consegnare del denaro. Le microspie captano rumori compatibili con «il conteggio di banconote», seguiti da una chiamata alla “ciota”, a cui viene girata parte del denaro. Il 5 maggio, la persona offesa chiede una nuova dilazione. Patitucci acconsente, ma ammonisce: «Dal nove in poi devi stare a casa mia!».

La sentenza conferma che il prestito elargito da Porcaro e poi gestito da Patitucci rientra a pieno titolo nella fattispecie di usura aggravata, anche in virtù delle percentuali praticate e dello stato di bisogno della vittima. Allo stesso modo, le conversazioni dimostrano che «Patitucci costringeva la p.o. ad adempiere al suo debito usurario», integrando pienamente la fattispecie estorsiva.

Leggi anche ⬇️

Per quanto riguarda il secondo episodio, oggetto dei capi 31 e 32, l’imputato principale è Marco Saturnino, che avrebbe concesso alla persona offesa un prestito di 80mila euro, con interessi mensili di circa mille euro. Tuttavia, per il capo 31, il gup Giacchetti ha pronunciato una sentenza assolutoria ritenendo non provato il tasso usurario. Diverso il discorso per il capo 32, dove viene accertata l’intimidazione esercitata da Saturnino, che minacciava l’imprenditore dicendogli: «Per tutto l’amico in comune domani glielo vado a dire… non ti posso più aspettare…», allusione chiara al boss Patitucci.

Per i capi 29, 30 e 32, sono state riconosciute le aggravanti del metodo mafioso e, per i reati di usura, quelle di cui all’articolo 644 comma 5, (nn. 3 e 4), poiché la vittima era titolare di un esercizio commerciale e si trovava in stato di bisogno. «Patitucci metteva in chiaro alla vittima che il pagamento doveva essere eseguito nei termini da lui stabiliti stante la necessità di raccogliere il denaro per provvedere al pagamento degli stipendi dei sodali», scrive il giudice.

Alla fine, la persona offesa, sopraffatto dalle richieste e dal peso psicologico delle minacce, decise di lasciare momentaneamente Cosenza.