di Barbara Gagliardi*

L’espressione “caffè letterario”, pur citando una bevanda che, nel nostro “bel Paese”, rimanda immediatamente all’opportunità di un incontro e alla possibilità di vedersi e trascorrere del tempo insieme, non è un’idea italiana, ma nasce in Francia tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento: le sensazioni avvolgenti dell’odore intenso che esala dalla tazzina fumante del caffè; il suo sapore gradevole, che è fra i più apprezzati al mondo, non sono legati solo al gusto, ma evocano un insieme di emozioni e di esperienze che hanno fatto la storia e l’evoluzione stessa della società nazionale ed europea.

Da qui, il “caffè letterario”, quel luogo in cui intellettuali, artisti e scrittori si riunivano per bere insieme un caldo caffè e cogliere l’occasione per discutere di temi attuali, come la politica o l’economia, ma, anche per trattare tematiche legate all’arte, alla letteratura, al teatro o alla filosofia; per sviluppare nuove idee e per accrescere le proprie conoscenze.

Da Parigi e, poi, dalla Francia, cominciarono a sorgere caffetterie del genere per raggiungere, ben presto, l’Inghilterra, gran parte dell’Europa, l’America, ma, anche Venezia e il resto della Penisola: il primo caffè letterario, in Italia, pare sia stato il Caffè Florian di Venezia. All’interno dei caffè letterari, le persone desiderose di imparare, potevano assistere a performance artistiche o partecipare ad attività culturali come letture e descrizioni di dipinti. L’atmosfera era informale e bohémienne e diventò lo sfondo ideale per far convergere, negli stessi luoghi, i primi illuministi e diffondere le idee di libertà ed uguaglianza, ma anche per divulgare le prime opere dei surrealisti francesi e dei futuristi italiani.

Come insegnante di lettere, mi piaceva l’idea di realizzare un incontro che richiamasse le sensazioni di questi luoghi del passato e il concetto di un tempo indefinito in cui potersi incontrare, ascoltare e scoprire, senza alcun disturbo, nuove possibilità di interpretazione delle parole o dei termini e cogliere diverse prospettive, anche attraverso versi, musiche e dipinti al fine di raggiungere una condizione vivida e leggera di conoscenza. In una società in cui le esperienze culturali, sono sempre più rare, l’incontro del 19 gennaio 2024, si è svolto nella suggestiva cornice della biblioteca comunale delle “Generazioni Future” e mi è sembrata un’ottima opportunità per uscire dalle mura delle aule scolastiche e condividere, con musicisti, artisti e poeti locali, con esperti d’arte, ma, soprattutto, con i miei alunni e i loro genitori, un mio studio sul concetto di “follia”. Hanno partecipato a questo incontro, la poetessa Antonia Flavio, che ha letto la poesia “Delirio”, tratta dalla sua raccolta “Diario bruciato”, e il maestro Mimmo Vercillo accompagnato dal critico d’arte Concetta Bevilaqua; insieme hanno presentato due bozzetti ispirati ad alcuni episodi dei poemi epici. Grazie alla conduzione sapiente ed esperta di Giulio Riga e all’accompagnamento prezioso di violini, chitarre e clarinetti, ho potuto sviluppare il mio tema e, per farlo, sono partita dalla traduzione del proemio dell’Odissea, eseguita da Salvatore Quasimodo.

Al verso 6, il poeta traduce con “follia” l’azione dei compagni di Ulisse, i quali, vinti dalla fame e dall’istinto di sopravvivenza, mangiarono le vacche sacre ad Apollo: giunti presso la terra di Trinàcria, Euriloco, propose ad Ulisse e agli altri di fermarsi almeno per una notte e ripartire il mattino dopo, all’alba. Il mattino dopo, però, la bonaccia rendeva impossibile ripartire e durò per oltre un mese. Le scorte finirono e, a quel punto, fu proprio Euriloco a incitare i compagni del re di Itaca ad uccidere le vacche dell’isola, sacre al dio del Sole, per sfamarsi. Solo Ulisse né si accorse né partecipò all’infausto banchetto; il mattino seguente si affrettò a ripartire, ma l’ira del dio non tardò e fece scatenare un tempesta in mare che distrusse l’imbarcazione e uccise tutti tranne Ulisse che era senza colpa e che si ritrovò naufrago sull’isola di Ogigia, abitata dalla ninfa Calipso. Il termine “follia”, per tradurre l’istinto alla sopravvivenza, mi ha fatto pensare all’uso del corrispondente aggettivo “folle” nell’espressione dantesca “folle vole”.

Dante fa pronunciare queste parole proprio ad Ulisse, protagonista dell’Odissea, quando, guidato da Virgilio, incontra il re di Itaca nell’ottava bolgia fra i fraudolenti. Ulisse, nell’Inferno, si manifesta sotto forma di un’enorme fiamma biforcuta. E’ evidente il perché di quella pena: come nella vita aveva bruciato la fiducia degli altri; nella morte, brucia egli stesso in una fiamma vera. E’ evidente anche perché si trovi tra i fraudolenti: quelle che, per Omero, sono strategie di guerra; per Dante, sono inganni! Primo fra tutti l’inganno del cavallo di Troia, inganni che ha perpetrato al fianco di Diomede, re di Argo, che ora brucia con lui rendendo l’enorme fiamma a due punte. Quello che Ulisse racconta è, piuttosto, come è morto: l’istinto di conoscere divenne forte come l’istinto di sopravvivenza e, il desiderio di “divenir del mondo esperto”, lo spinse ad andare oltre le colonne d’Ercole, quel limite dove c’è l’ignoto, ciò che, all’uomo, non è dato sapere.

Qui, vide la montagna “bruna per la distanza” del Purgatorio e, da quel luogo dove “si puote ciò che si vuole”, nacque un turbine marino nel quale la barca di Ulisse venne risucchiata per sempre. Tuttavia sia nel sostantivo “follia” sia nel corrispondente aggettivo “folle” non si cela l’accezione negativa di μανία (mania), “pazzia”; ma, piuttosto, quella positiva legata, come ho evidenziato più volte, all’idea di “istinto”, la matrice più autentica del coraggio. La radice di follia e folle, infatti, può essere, a mio avviso, rintracciata nella parola greca “nè-faliacheè il miele servito in purezza e che, pare avesse e abbia, straordinarie proprietà per favorire uno stato di ebrezza e, quindi, di coraggio. Bene lo sanno i prigionieri di Auschwitz che, racconta Primo Levi nel romanzo “Se questo è un uomo”, nei campi di concentramento leggevano l’Inferno di Dante e lo associavano all’inferno che stavano vivendo sulla terra, ma soprattutto leggevano del “folle volo” di Ulisse per farne l’inno alla più grande aspirazione dell’uomo: il coraggio della libertà.

*Caffè letterario