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di Ugo Adamo*
Recente è la decisione del Tribunale di Cosenza, di cui questo giornale ha dato notizia, di non procedere nei confronti di chi ha fatto ricorso all’estero alla maternità surrogata. Nell’articolo giornalistico è riassunto il dispositivo della decisione: non si procede contro chi commette il fatto in un Paese (nel caso concreto l’Ucraina) dove, diversamente da quanto previsto in Italia, la maternità surrogata non costituisce reato, e manca l’autorizzazione a procedere del Ministro di giustizia. Non avendo letto le motivazioni della decisione, e per non tediare eccessivamente il lettore, è interessante soffermarsi sul contesto normativo in evoluzione, nella misura in cui la Camera dei deputati lo scorso 26 luglio ha deliberato in merito a tale fattispecie come reato universale. La discussione è ora in Senato: ciò che si propone di vietare però nei fatti non si può perseguire. Vediamo perché.
Benché già esista un esplicito divieto penale di tale pratica di procreazione (così come si evince dalla lettura dell’art. 12 della legge n. 40 del 2004), la bozza di legge oggi in discussione ha l’intento di intervenire non già sul quantum della pena ma esclusivamente sull’applicazione della legge penale italiana a fatti commessi in uno Stato estero.
Come è accaduto per la coppia di cosentini, mai nessuno è stato punito per aver fatto ricorso alla maternità surrogata all’estero proprio perché tutte le condotte tendenti alla realizzazione di tale pratica sono realizzate all’estero (sic!), e, stante il principio della doppia punibilità (per cui l’art. 9 c.p. è punito il cittadino che commette in territorio estero un delitto punito anche dalla legge italiana), non si può di certo applicare una sanzione per condotte tenute in un Paese straniero in cui queste sono non solo consentite (lecite) ma anche regolate e disciplinate.
È evidente la finalità dell’estensione dell’incriminazione a tutto il globo terracqueo: impedire l’elusione del divieto di surrogazione di maternità, che in Italia avviene attraverso il c.d. “turismo procreativo”. Il mezzo per raggiungere il fine è quello della definizione di un reato universale su un fatto che non è universalmente reato, sta qui il problema. E non è universalmente reato a guardare a tutti quei Paesi anche occidentali, liberali e sicuramente democratici in cui è possibile far ricorso a tale pratica. Anche se si contano due soli pronunciamenti della Cassazione penale (comunque di proscioglimento: una del 2016, l’altra del 2020) che sembrano essere di diverso avviso da quello fatto proprio dal Tribunale di Cosenza, la dottrina unanime e la gran parte della giurisprudenza considerano perseguibili le condotte tenute all’estero solo in presenza del principio della doppia incriminazione, con la conseguenza che non è punibile la surrogazione di maternità se realizzata in uno Stato in cui tale pratica è lecita.
Ma c’è di più; la bozza di legge in discussione in Senato non va neanche nel senso di quella giurisprudenza minoritaria prima richiamata, perché, sempre in tema di maternità surrogata, non solo rimanda al limite del principio della doppia incriminazione ma soprattutto tende a derogare a quella disposizione presente oggi nel Codice penale (art. 9, c. 2) per cui il colpevole è punito «a richiesta» del Ministro della Giustizia; la qual cosa è di estremo rilievo in quanto oggi ‒ per il delitto comune del cittadino all’estero punito con la reclusione inferiore ai tre anni, come prescritto, per come vedremo, per il caso che ci interessa ‒ si rinvia all’opportunità o meno di procedere mediante una decisione politica e non già all’obbligatorietà dell’azione penale.
Il rinvio alla decisione governativa, d’altronde, dovrebbe continuare a essere richiesto dalla delicatezza dei rapporti internazionali, dalla diversità di sensibilità etiche in materia presenti nei vari ordinamenti, in cui, per esempio, esiste la distinzione fondamentale tra la maternità surrogata come atto gratuito di solidarietà umana (il dono) e quella commerciale, alla quale si accede con contratto di prestazione dietro corrispettivo. Il Parlamento, invece, mira a intervenire sulla normativa (art. 7, n. 5, c.p.) che riguarda i reati commessi all’estero, quella cioè che a oggi tende a punire con la legge italiana il cittadino che commette in territorio estero reati come quelli contro la personalità dello Stato oppure quelli particolarmente gravi e odiosi come la tratta di donne e di minori, l’abbandono di persone minori o incapaci, la propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa, il traffico di organi umani, la mutilazione dei genitali femminili, etcetera.
Poi, dopo la strage di Cutro, vi è anche il nuovo reato di morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina (i trafficanti ‒ come è noto ‒ sono oggi perseguitati in tutto l’universo terracqueo, ancora sic!). Ritornando alla maternità surrogata, rileviamo, però, che siamo dinanzi, per la legge italiana, a un reato che è punito con la reclusione da tre mesi a due anni, come, per intenderci, il furto semplice (quello di una mela al supermercato!); quindi, un reato considerato non grave per la legge italiana e comunque non riconosciuto come tale universalmente. Siamo quindi giunti alla demagogia e al rischio di populismo penale.
Se si dovesse obbligare l’autorità giudiziaria a esercitare l’azione penale contro chi si reca all’estero per praticare la maternità surrogata (oggi rimessa, lo ripetiamo, alla richiesta da parte del Ministro), e dovesse venir meno il vincolo della doppia incriminazione, come si potrebbe punire quel fatto senza la cooperazione giudiziaria dello Stato estero in cui quel comportamento è lecito? Ci troveremmo dinanzi a un processo penale senza prove (di nuovo sic!).
Dalla concretezza al più alto livello dell’effimero e della propaganda più esasperata. Il ricorso al Codice penale non può molto, se non nulla, anzi rimane del tutto parziale se non ci si preoccupa minimamente dei soggetti più deboli e vulnerabili, ovverosia di quei bambini già nati attraverso la maternità surrogata e che, pur non avendo colpa, continueranno a non essere riconosciuti e quindi non accolti. Tutta la giurisdizione ‒ Corte europea dei diritti dell’uomo, Cassazione e Corte costituzionale ‒ chiedeva sì un intervento del Legislatore ma per disciplinare un fenomeno che è talmente complesso da non dover essere trattato in modo così sciatto e ridotto a mero slogan.
Abbiamo bisogno di tutto tranne che di credere a un diritto penale onnipervasivo e al quale questo governo ha deciso di rinviare tutto fin dal suo primo decreto, per intenderci, quello contro i pericolosissimi rave party e i migranti che fuggono dai propri Paesi d’origine. Il risultato della definizione di un incomprensibile reato universale sarà quello che ogni richiesta di trascrizione da parte dei genitori intenzionali equivarrà a un’autodenuncia (a una disobbedienza, come avvenuto ‒ per come il lettore sa bene ‒ per le questioni di fine vita con le azioni di Marco Cappato, e non solo), a cui seguirà un procedimento penale e, quindi, il rinvio della questione alla Corte costituzionale. Ancora una volta si assisterà a una supplenza da parte del Giudiziario di un Legislatore silente o che parla in modo gravemente parziale.
* costituzionalista, DESF-Unical