Dagli esordi ai grandi palcoscenici: la storia di un artista che ha conquistato il cuore di tutti gli italiani con garbo e lentezza
Tutti gli articoli di Societa
PHOTO
Dario Brunori è il calabrese dell’anno, anche se la sua voce non è più ristretta al confine regionale: una dimensione circolare, quasi escheriana, in cui hai la sensazione di andare, ma poi non vai da nessuna parte. Qualcuno, a ogni passaggio di cometa, ce la fa a rompere lo specchio e vedere che dall’altra parte esiste un mondo sconfinato, in cui poco importa se sei di Cosenza, Reggio o Catanzaro; importa solo che sei bravo. E che lo sei ovunque, al netto del campanilismo che è come il colesterolo: c’è quello buono e quello insano.
Questo Capodanno Brunori suonerà e canterà a Cosenza (e il suo cachet sarà devoluto a cinque associazioni attive nel sociale), la città che ha ama e vissuto fin da quando, anni fa, girovagava con la pashmina al collo, prendeva con gli amici una birra al bancone di un locale sotterraneo che adesso non c’è più, sognando di fare della musica il percorso meno battuto whitmaniano che conduce nel bosco nella direzione giusta se sai essere cocciuto. Ma la pena è condizione necessaria al cambiamento. Così Brunori, per tutti solo Dario (anche per quelli che l’hanno incrociato una volta sola, per caso), ha provato sulla propria pelle e raccontato a tutti cosa significa dirsi la verità e sconfiggere la paura che blocca le gambe: ha agguantato il filo di un aquilone con l’ingenuità dei bambini che ancora pensano di poter volare.
E ha funzionato.
Il brunoriaresimo, è una postura autoriale, un’attitudine, un resistenza petrosa che premia la vita lenta, semplice, senza assilli, senza iperboli, eccessi, baratri: un derivato denominale di bizzarria all’incontrario, che premia l’onda lunga e placida e non la cresta puntuta; tendenza insolita questa, nella vallata dei cantori, degli autori, di chi fa arte a tutti i costi anche senza esserne parte, che senza chiasso non possono sopravvivere. È brunoriano essere pigri, lenti, attardarsi sì, ma per risolversi nel frattempo; è invecchiare e rimanerci anche un po’ male; è non inventare storie per mascherare il dubbio, anzi raccontarlo, perché così magari - con tante luci - l’ombra si riduce.
C’è il filo della crescita generazionale, tutt’altro che indolore, tessuto nelle sue canzoni: è un filo dolente e sa quasi di resa, non fosse per la spinta in levare che poi arriva come una sveglia. Brunoriano è anche essere stanchi ma non sbagliare nel parlare; essere scanzonati, non prendersi sul serio davanti a tutti; regalare agli altri un po’ della fortuna ricevuta, condividerla per pasteggiare insieme, perché se si è soli non vale la pena niente. È brunoriano avere la stessa comitiva, gli stessi amici, collaboratori storici con cui capirsi: perché le storie vanno tirate fuori quando si mettono in testa di nascondersi per bene.
Brunori attinge sempre dal personale per scrivere: quando dipinge i pomeriggi cosentini dell’infanzia, quando confessa una paternità che stravolge la testa, prima della vita che è sempre in movimento tellurico, nonostante la fama dia la falsa attestazione di un livello sotto il quale non si scenderà mai.
Era il 2003. Dopo l’Università a Siena il cantautore guadagna qualcosa facendo il parcheggiatore e intanto compone musica per cartoni animati nei circuiti delle tv private. Il suo carattere pacato, tendente all’indolenza, lo porta a progettare sì, ma con spensieratezza: ad accarezzare l’idea della musica, ma senza impegno. La giusta distanza dalle cose, da tutte le cose, è una filosofia che gli sta come un guanto. L’arte sì, ma poi ci si pensa.
Lo diceva Lennon che l’uomo fa progetti e intanto Dio ride. Suo padre, emigrato al contrario da Nord a Sud, scompare all’improvviso lasciandogli una ditta di mattoni da guidare da cui Brunori era fuggito per restare nella sua bolla di desideri.
Torna a casa, ma non spegne quella scintilla che si era ormai accesa. Compone di notte, soprattutto. Scrive di quello che conosce: sentimenti, immagini, fotografie ingiallite che restituiscono la bellezza delle imperfezioni. È la sua personale recherche, la sua arca perduta da scovare nella montagna.
Il primo album, Vol. 1, entra nella scena indie in modo dirompente. Lo traina “Guardia ’82”, ballata in Polaroid di un’estate che torna profumata dalla rielaborazione della memoria: c’è il Super Santos arancione, il falò sulla spiaggia dove quello che suona non rimorchia mai, l’euforia confusa della preadolescenza dove tutto è subito, ma poi passa troppo in fretta. Il disco vince il Premio Ciampi come miglior esordio e Brunori il Tenco come miglior autore esordiente. Con la band - Simona Marrazzo, Dario Della Rossa, Mirko Onofrio e Massimo Palermo - inizia a girare l’Italia. Nascono i Brunori Sas.
La genetica imprenditoriale porta Brunori a pensare alla creazione di una filiera artistica autonoma: produzione, comunicazione, etichetta, tutto deve restare nel cerchio. Nasce Picicca Dischi. Nel 2011 arriva Vol. 2, nel 2014 Il cammino di Santiago in taxi. I tour sono maratone: club fumosi, locali di provincia, migliaia di chilometri percorsi col furgoncino pieno di casse e strumenti. Ci sono le sagre locali, i piccoli festival, le date si moltiplicano.
Nel 2017 A casa tutto bene segna il primo vero salto nel mainstream. Le sue doti da intrattenitore vengono notate e lanciate sulla tv nazionale. È un crescendo. Ma manca qualcosa, qualcosa che si frappone tra il suo talento e il riconoscimento su larga scala. Sanremo? Non se ne parla. Nelle interviste si schernisce: non è il momento – dice -, mi prenderebbero in giro gli amici; non è per me. Vedremo.
Lui, che non è di cuore vagabondo, invece di trasferire tutta la Sas nel cuore nevralgico degli affari, della musica, del cinema, resta dov’è, in Calabria, anzi fa di più. Si rifugia a San Fili, cittadina arroccata a guardare la valle dall’alto, che sembra inerpicarsi per capire come stare in equilibrio. Forse quel luogo è una metafora, il riflesso di una condizione: imparare a bilanciare, mettere le pietre una sull’altra senza farle cadere, comporre suiseki per trasformare anche le rocce più irregolari in qualcosa di armonico. L’essenza della creatività.
Lì a San Fili costruisce la sua casa, lì si sente a casa. E nasce Cip che è un album conciliante, più sereno, in cui torna nei versi una sorta di leggerezza che negli album precedenti – in cui il tempo che trascorreva, le occasioni perdute, l’età non più verde, erano i temi portanti - si presentava quasi velata.
La famiglia Brunori s’allarga e arriva Fiammetta e con lei Baby Cip! una rielaborazione in chiave infantile di alcuni brani dell’album Cip! con arrangiamenti più leggeri, cori, ritmi giocosi. Tutti i proventi delle vendite vengono devoluti al reparto di neonatologia dell’ospedale Annunziata di Cosenza dove è venuta alla luce Fiammetta.
Tre anni dopo, osservando un albero nel silenzio di casa, Brunori si accorge che quel noce - sofferente, quasi stanco - ha ripreso vigore all’improvviso. È un segno. Si rimette a scrivere. Da quel ritorno nasce qualcosa di potente, capace di spingerlo oltre l’ultimo argine rimasto. All’Ariston arriva sorridente, la chitarra al collo, senza corazze. Canta di sé, dell’amore per sua figlia, e anche di quel buio che arriva nel giorno che muore. È un successo.
Con Sanremo inizia per Brunori un'altra parte della sua storia, quella in cui la gravità del successo fa da contrappeso alla certezza che guardando bene, cercando in fondo, in una soffitta infinita di ricordi freschi e antichi, l’ispirazione trova sempre la via, come uno spiffero di una vecchia casa.
Il peso del successo è una massa importante, è un'energia che piega lo spazio e il tempo e attrae verso un centro pieno di promesse. Ma in quel centro qualcuno ha pensato di piantare un albero robusto e forte. È il tempo delle noci. È questa la novità.

