giovedì,Dicembre 12 2024

Da scassinatore a boss di Cosenza, le due “svolte” di Roberto Porcaro

La biografia criminale dell'uomo che oggi collabora con la giustizia dopo aver retto le sorti della cosca confederata per circa un decennio

Da scassinatore a boss di Cosenza, le due “svolte” di Roberto Porcaro

«Ingegne’, a Cosenza discorsi a metà non se ne lasciano». È una delle intercettazioni che hanno reso celebre Roberto Porcaro. Un dialogo che risale al 2010 e che lo vede intento a chiedere il pizzo a un imprenditore. A quei tempi, nessuno poteva pronosticare per lui un futuro da capoclan. Eppure è ciò che avverrà di lì a poco. Da alcune settimane, uno dei principali boss cosentini collabora con la giustizia e, almeno sulla carta, per la Dda di Catanzaro il suo ingaggio rappresenta un vero e proprio colpaccio. Non a caso, gli ultimi dieci anni di vita criminale in città si sono consumati all’ombra della sua cattiva stella.

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Passava tutto dalle sue mani e nonostante le divisioni interne, i dissapori e le antipatie, la sua leadership non è stata mai messa in discussione. Del resto, godeva di ottimi sponsor, in primis Francesco Patitucci, l’uomo che lo ha letteralmente catapultato al vertice dell’organizzazione. Stavolta, insomma, non si è pentito uno qualunque, ma il capoclan della fazione italiana. A ben vedere, con le dovute proporzioni, non accadeva dai tempi di Franco Pino.

La sua adesione al crimine non matura per necessità, ma per vocazione. Mamma insegnante e papà apprezzato vigile del fuoco, lui paga il prezzo di qualche cattiva amicizia. Comincia come ladro e scassinatore, ma nel 2007 finisce nell’orbita del clan di San Vito.

La prima inchiesta antimafia che lo riguarda – nome in codice Anaconda – lo vuole associato proprio a quel gruppo, allora guidato da Domenico Cicero, con il ruolo di armiere e racketeer. Finisce per un po’ di tempo dietro le sbarre e Radio carcere racconta che proprio lì, in cella, si concretizzi la svolta. Il processo Anaconda lo vede uscire assolto da ogni accusa e sarà una verità giudiziaria sovrapponibile alla realtà: Porcaro non appartiene al clan Cicero, quando arriva la sentenza è già passato al clan Lanzino.

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Il suo nuovo capo è Patitucci, reggente dell’organizzazione, che ne fa subito il suo braccio destro. E in sua assenza, causa detenzioni prolungate, ottiene il segno del comando. Diversi pentiti lo vogliono presente ai summit di mafia già dal 2013 a prendere le decisioni che contano. Che si tratti di omicidi, racket o droga, poco importa: ai tavoli che contano c’è sempre lui.

Gli investigatori gli stanno addosso. Entra ed esce dal carcere perché alla stagione dei processi si associa quella delle assoluzioni. Ne colleziona una serie impressionante e quando Patitucci lo issa ufficialmente al vertice della cosca confederata, sembra l’inizio di un regno, il suo, destinato a durare. Il capo lo ribattezza “Te piasse” e da quel giorno parlerà di lui senza chiamarlo mai per nome. «Te piasse o non te piasse?». E non c’è niente da capire.  

A differenza di Patitucci, però, il nuovo boss si rivela riottoso e divisivo. La sua scalata, rapida e improvvisa, mette a nudo il fragile equilibrio di un clan in cui già abbondano personalismi e spinte autonomiste. Ci mette poco a litigare con gli altri gerarchi del gruppo che mal digeriscono la sua presenza, in particolare Mario Piromallo e Salvatore Ariello.

Dispetti e boicottaggi abbondano da una parte e dell’altra: i pestaggi tra fedelissimi delle opposte fazioni e i danneggiamenti alle rispettive attività commerciali occulte sembrano il preludio a una faida. Ma Porcaro gode della fiducia di Patitucci e in più ha stretto un asse con la componente nomade della confederazione, quella dei fratelli Abbruzzese. Morale della favola: la guerra fratricida non scoppia, il conflitto d’autorità permane.

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“Te piasse” lo risolve inasprendo ancor più i tratti del suo carattere. Fumantino, poco incline al dialogo e alla conciliazione, realizza che nel gruppo nessuno riuscirà mai ad amarlo. E così si contenta di essere temuto. Le intercettazioni raccontano come i suoi affiliati abbiano paura a incontrarlo quand’è d’umore cupo e lui stesso si mostra implacabile persino con i familiari. Impone il pizzo al cognato che, per stare lontano dai guai, non lo ha voluto come socio della sua pizzeria. «Si devono fare le cose giuste» è il motto che accompagna la sua democrazia criminale.

Oltre a incassare i proventi di racket e droga, investe in circuiti finanziari e imprenditoriali. Sempre nelle intercettazioni, si favoleggia della sua presunta ricchezza. Pare faccia tanti soldi. Tanti, tanti soldi. «Non sa più dove metterli» afferma uno degli indagati di Reset al telefono. E in periodi di vacche magre per tutta l’organizzazione, voci così finiscono per allargare ulteriormente il solco fra lui e il resto del mondo. Ecco perché quando alla fine del 2019, la polizia lo arresta insieme agli Abbruzzese per una serie di estorsioni, preludio alla tempesta giudiziaria in arrivo tre anni dopo, più d’uno all’interno del gruppo tira un sospiro di sollievo.

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Da quel momento in poi, la ruota non gira più a suo favore. Il biglietto per il carcere si rivela di sola andata. Alla prima condanna (mite) per le estorsioni, se ne associa un’altra per narcotraffico in quel di Reggio Calabria: vent’anni di pena, una botta di vita per lui inedita. Sarà stato questo a farlo vacillare o, forse, il timore di nuovi e ulteriori fulmini in arrivo nonché la consapevolezza di essere giunto al capolinea. Fatto sta che alla soglia dei quarant’anni, si arrende alla giustizia.

Gli investigatori della Dda di Catanzaro lo hanno già interrogato a lungo. Non è chiaro se al loro cospetto abbia già vuotato il sacco per intero, riferito tutto ciò che ha avuto modo di apprendere, dalla sua postazione privilegiata, in oltre un decennio di militanza criminale. Sono tanti i segreti di cui potrebbe essere custode e a sentire gli altri pentiti, oggi suoi colleghi, qualcosa da ridire su politici collusi, imprenditori amici degli amici, infedeli in divisa e altri insospettabili dovrebbe averla anche lui. Soprattutto lui. C’è da scommettere sul fatto che, un po’ per dovere un po’ per contrappasso, prima di fargli aprire bocca i magistrati lo abbiano messo in guardia: «A Cosenza discorsi a metà non se ne lasciano». Vediamo se è vero.  

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