Cosenza, Ruà non è più il capo ‘ndrangheta. Porcaro: «Lo ha voluto lui»
Secondo il pentito si è tirato fuori già dal 2015 per ottenere benefici penitenziari, ma anche il clan aveva un interesse strategico ad accantonarlo
Le copiate degli ‘ndranghetisti cosentini hanno subito una modifica radicale fin dal 2015. Alla voce “capo società”, infatti, non figura più Gianfranco Ruà, bensì Gianfranco Bruni. A rivelarlo è il pentito Roberto Porcaro che in uno dei verbali depositati agli atti del processo “Reset” spiega anche le ragioni di questa staffetta. «È stato lui a chiedere di non comparire più formalmente allo scopo di non risultare più all’esterno come riferimento criminale dell’associazione cosentina».
Tutto ha origine due anni prima, quando i carabinieri trovano armi e droga a volontà a casa di un allora sconosciuto Antonio Illuminato. Durante la perquisizione domiciliare, però, salta fuori anche la famigerata copiata. È il documento paragonabile alla carta d’identità del mafioso. Quest’ultimo la riceve subito dopo il battesimo insieme alla dote di ‘ndrangheta (picciotto, camorrista, ecc.) e su di essa sono indicati i nomi dei capi a cui farà riferimento dopo il suo ingresso nell’onorata società. A ogni avanzamento di grado e ruolo corrisponde l’emissione di una nuova copiata. Chi ne possiede una ha l’obbligo di impararla a memoria, così da poterla recitare davanti agli altri affiliati per farsi riconoscere. Bene, quel giorno del 2013, in testa alla copiata di Antonio Illuminato figura il nome di Ruà.
Quando la notizia diviene di pubblico dominio, dal carcere il diretto interessato scrive una lettera al pm Pierpaolo Bruni, all’epoca in servizio alla Dda di Catanzaro, per prendere le distanze dall’accaduto. In sintesi, sostiene che il suo nome sia utilizzato contro la sua volontà e che lui, di crimine e dintorni, non vuole più saperne. Il racconto di Porcaro sembra confermare questa intenzione: «Aveva iniziato un percorso di revisione critica per ottenere benefici penitenziari». Insomma, il suo unico interesse era quello di poter uscire un giorno dal carcere, nonostante gli ergastoli sul groppone.
La sua richiesta, secondo Porcaro, è accolta con effetto immediato. Anche perché, in quel momento storico, la malavita cosentina ha tutto l’interesse a rimpiazzarlo in quel ruolo ormai meramente simbolico. All’epoca del processo “Garden”, infatti, Ruà decide di operare la cosiddetta «dissociazione»: confessa i reati che ha commesso senza, però, accusare altre persone. Attua questa scelta quando ancora su di lui non pendono accuse di omicidi, ma solo quella di associazione mafiosa. Secondo Porcaro, il suo prestigio criminale comincia a scemare proprio da quel giorno. «Non era ben visto all’interno dell’organizzazione» afferma il pentito, riferendosi alla società maggiore di Reggio Calabria con cui, in quel periodo, lui e il suo gruppo sono in trattativa per ottenere il via libera ad aprire il Locale di ‘ndrangheta a Cosenza. E tagliare i ponti con Ruà, almeno in modo formale, avrebbe agevolato questo percorso perché in quel modo «dimostravamo ai reggini che anche noi prendevamo le distanze dalla sua dissociazione». Questa, però, è un’altra storia.