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Cosenza, l’estorsione al “caggio” che fa arrabbiare Francesco Patitucci

Nel 2019 il boss entra in contrasto con alcuni zingari rei di aver chiesto soldi a un imprenditore suo amico: «Io non faccio il galletto a casa degli altri»

Cosenza, l’estorsione al “caggio” che fa arrabbiare Francesco Patitucci

«Non ridere che ti picchio». Quello che si presenta a casa di Francesco Patitucci, il 27 agosto del 2020, è solo un ragazzo. Non ha alcuna voglia di ridere, ma l’incoscienza e il timore gli dipingono in viso una smorfia spavalda che irrita il boss di Cosenza. È ancora sulla soglia di casa quando Patitucci ribadisce il concetto: «Non ti atteggiare altrimenti ti picchio». È in compagnia di un suo coetaneo e il boss ne ha anche per lui: «Non ridere, se no prendi gli schiaffi pure tu». La cimice piazzata nell’appartamento dalla Squadra Mobile – sono in corso le indagini di “Reset” – documenta tutti quei convenevoli, compresa l’intimazione finale urlata da Patitucci: «Entra dentro. Siediti, siediti».

Perché ce l’ha così tanto con loro? È successo che, un mesetto prima, gli zingari sono andati a chiedere soldi a un imprenditore del Tirreno cosentino che paga già il pizzo ai clan italiani. I due ventenni conoscono gli autori di quello sconfinamento criminale. E così Patitucci li ha convocati per fare la voce grossa, nella certezza che recapiteranno il messaggio a chi di dovere. «Senti, che ti dico una cosa: non se la deve prendere nemmeno Gesù Cristo questa confidenza. Dove andate che ci sono amici, dovete stare con due piedi in una scarpa. Se no, garanzie zero. Noi non abbiamo supremazia sopra a nessuno! Per quanto riguarda me, io ho amici che mi rispettano. E rispetto! Io a casa degli altri non vado a fare il galletto».

A informarlo dell’accaduto è stato proprio l’imprenditore. «Un amico» lo definisce Patitucci, uno di cui non può dubitare perché è «un caggio», ovvero una persona semplice che non ha alcun interesse a mentire e «ad armare traggiri». La cosa che fa lo infuriare di più, è che gli zingari, nel compulsare questa persona, si sarebbero presentati come «quelli di Cosenza». E come se non bastasse, pare abbiano speso il nome di Roberto Porcaro, circostanza che contraria moltissimo Patitucci: «Mi auguro che non gli abbia dato questa confidenza, ma se qualcuno gliel’ha data mi arrabbio».

Il boss teme anche l’effetto boomerang, e cioè che lui e il suo gruppo subiscano ripercussioni giudiziarie per fatti commessi da altri. «Si devono cacciare il vizio di far venire la colpa sopra agli altri» sibila all’indirizzo dei suoi interlocutori. Anche perché, vistosi disperato, il “caggio” potrebbe rivolgersi ai carabinieri. «E poi ci andiamo di sotto noi». Insomma, l’ora è di quelle gravi. E le soluzioni, in casi del genere, non possono che essere radicali: «Ora ti dico una cosa: mi sto guardando. La verità, mi sto trattenendo. E se no con una mazza li devi fare pezzi pezzi. Ma no che li volevo ammazzare. Gli devo spezzare le mani».

Il messaggio arriva a destinazione. Il giorno dopo, infatti, in via Fratelli Cervi si presenta un esponente del clan dei nomadi per dirimere la controversia. L’uomo tenta di difendere l’autore della chiamata estorsiva – «Un bravo ragazzo» – e Patitucci gli si rivolge con tono amichevole, ma risoluto, per chiarire ulteriormente il concetto: «Deve andare a chiedere scusa. Non è una sottomissione, lui ci prende di prestigio se gli chiede scusa. Perché si deve rendere conto di aver sbagliato». Garantisce che se questo “bravo ragazzo” porterà a termine il compito come richiesto, allora «non lo toccherà nessuno». Detto ciò, suggerisce anche le parole che dovrà profferire al cospetto dell’imprenditore: «C’è stato un frainteso. Non mi ricordo se mi è uscita qualche parola che non doveva uscire. Fate finta che non è successo niente. Gli amici vostri sono amici nostri. Punto».  

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