Aborto, nell’ospedale di Cosenza c’è un solo bagno destinato all’espulsione degli embrioni
La testimonianza di una giovane che si è rivolta all'Annunziata per una interruzione di gravidanza con metodo farmacologico: «Dopo aver preso la pillola, ho condiviso l'attesa in un'unica stanza con altre donne nella mia stessa condizione. Violato il diritto alla riservatezza»
A quarantasei anni di distanza dall’entrata in vigore della legge numero 194 del 1978, che ha introdotto in Italia l’istituto dell’aborto, il diritto delle donne di interrompere la gravidanza non è equamente garantito e la discrepanza tra le varie aree del Paese si è aggravata da quando, nel 2009, al metodo chirurgico, si è aggiunto quello farmacologico.
La Regione Calabria si è adeguata con dieci anni di ritardo all’uso della RU486 e ancora oggi le linee guida della circolare del ministero della Salute che prevedono il day hospital e la possibilità che la pillola venga distribuita nei consultori rimangono lettera morta.
L’ospedale di Cosenza – dove per garantire l’aborto è stato necessario in passato rivolgersi a un medico “a gettone”, essendo il personale interno totalmente obiettore di coscienza – nel maggio 2020 ha finalmente garantito alle donne che ne facevano richiesta la possibilità di scegliere tra il metodo chirurgico e quello farmacologico. Eppure, a causa dei limiti strutturali di un nosocomio non più adeguato alla domanda crescente di servizi sanitari da parte della collettività, succede che un momento tanto delicato e sofferto venga gestito con approssimazione e senza garantire alle pazienti il rispetto dovuto.
Quella che vi raccontiamo è la storia di una giovane donna che si è rivolta all’ospedale dell’Annunziata per un’interruzione di gravidanza. Dopo un primo appuntamento dedicato alla visita medica, munita del certificato rilasciato dalle assistenti sociali in servizio presso il nosocomio bruzio, ha assunto il farmaco RU486 che causa la cessazione della vitalità dell’embrione e – trascorse 48 ore – è tornata per la somministrazione di un secondo farmaco, quello che provoca l’espulsione.
La ragazza ha confidato di essersi ritrovata nella stessa stanza – situata presso il reparto di ginecologia oncologica – in compagnia di altre donne che stavano vivendo la sua stessa esperienza. Oltre alla violazione del diritto alla riservatezza, tutte loro sono state costrette a utilizzare per l’espulsione dell’embrione lo stesso unico bagno. Una condizione assurda, svilente e mortificante, come se quella in corso fosse una pratica prettamente materiale, da portare a termine meccanicamente e senza alcuna conseguenza psicologica.
L’esperienza che vi raccontiamo risale allo scorso mese di maggio e speriamo davvero che, nel frattempo, la direzione dell’Azienda ospedaliera di Cosenza abbia individuato all’interno del presidio spazi più idonei e capaci di non intaccare la dignità delle donne.
Marina Pasqua, avvocata penalista e attivista del Centro antiviolenza “Roberta Lanzino” di Cosenza, dichiara: «Nessuna donna interrompe una gravidanza a cuor leggero, ma sono convinta che il metodo farmacologico sia meno invasivo di un intervento chirurgico, a condizione però che le pazienti vengano accolte in ospedale con maggiore sensibilità e rispetto della privacy personale».