Neonata rapita a Cosenza, le prove dell’innocenza di Moses
Messaggi vocali, fotografie e testimonianze mettono d'accordo la Procura e il gip: l'uomo non c'entra nulla con il sequestro della piccola Sofia
Perché Moses Omogo non è più in carcere per il rapimento della piccola Sofia? Continua a essere indagato con l’accusa di sequestro di persona? Due interrogativi che agitano l’opinione pubblica, che innescano contrapposizioni anche feroci tra colpevolisti e innocentisti, ma che per una volta non sono destinate a finire nel calderone degli enigmi irrisolti, o dei misteri destinati a restare tali per sempre. La lettura delle poche e dense pagine dell’ordinanza firmata dal gip Claudia Pingitore fugano ogni dubbio al riguardo: Moses non c’entra nulla; è per questo che ha lasciato il carcere.
Non è solo il giudice a ritenerlo estraneo all’incredibile “ratto” eseguito da sua moglie; prima del gip, infatti, anche il pm Antonio Bruno Tridico aveva rinunciato a chiedere nei suoi confronti l’applicazione di misure cautelari. Una convergenza perfetta, conseguenza dell’analisi approfondita di tutti gli indizi che lo presentano come strumento inconsapevole del piano folle e sgangherato di Rosa Vespa.
L’approccio al tema, da parte della Pingitore, è stato di tipo problematico: possibile, si chiede il gip, che in nove mesi quell’uomo non si sia accorto che la gravidanza di sua moglie era frutto solo della sua fantasia. E la risposta è stata: sì, è più che possibile. Dopo che la compagna gli annuncia di essere incinta, a maggio del 2024, un grave lutto – la morte di sua mamma – lo riporta in Africa e lo trattiene lì fino ad agosto. Una fotografia in cui bacia il pancione di Rosa, scattata dopo il suo ritorno in Italia, ritrae da un lato un uomo felice alle prese con la sua paternità e dall’altro una donna in stato interessante, anche decisamente avanzato.
Rosa Vespa, infatti, già robusta nella corporatura, si presentava anche il pancione. Sua sorella lo aveva anche decorato con un disegnino, a riprova del fatto che intorno a lei tutti, ma proprio tutti, avevano creduto al suo racconto. E non solo. Le sue sedute alle prese con il tiralatte, a preparare scorte per Ansel, è un rito a cui assistono sia lui che la madre di Rosa. Perché non avrebbero dovuto crederle?
Fino a quel momento, Rosa lo ha tenuto lontano dalla clinica, impresa che le è riuscita scaricando tutta la colpa alla solita burocrazia italiana. Lui le ha creduto, e la Pingitore non se ne stupisce più di tanto. Omogo non mastica le procedure, non conosce a menadito la lingua e, soprattutto, si fida ciecamente di quella donna a cui è devoto. Lei, intanto, lo tiene a bada aggiornandolo su tutti gli avanzamenti, con ecografie farlocche ottenute chissà come.
Finalmente arriva il gran giorno. Alcuni messaggi vocali dell’otto gennaio, sia in entrata che in uscita, documentano l’entusiasmo della coppia per la nascita del piccolo Ansel. Moses è entusiasta, dopo il travaglio lei gli invia una foto del nascituro attorniato dai medici. È tutta una farsa, ma lui non può saperlo. Quella conversazione a distanza, per il giudice, rappresenta un elemento decisivo a supporto dell’innocenza di Moses. Quel dialogo non può essere il delirio onirico di due squilibrati; molto più semplicemente da una parte c’è una donna che tira le fila della menzogna monumentale che ha costruito nel tempo e dall’altro c’è lui che abbocca.
Altri messaggi, stavolta datati 21 gennaio, il giorno fatidico, vedono ancora Moses in febbrile attesa di Rosa che, entrata in clinica alle 17.10, pare sia stata inghiottita da quella struttura. Nel frattempo, lui va a sbrigare alcune ambasciate, incontra un amico commerciante all’autostazione, torna al “Sacro Cuore” e si siede in sala d’attesa. Non prima, però, di essersi pulito le scarpe sul tappetino all’ingresso della clinica. Proprio il suo contegno serafico, nei minuti che precedono e seguono il rapimento, danno il colpo di grazia a qualsiasi sua presunzione di colpevolezza.
È ancora indagato? Sì, ma verosimilmente per poco. Un provvedimento così netto e, soprattutto l’atteggiamento della Procura, fanno pensare che la sua posizione sarà archiviata molto presto. Non è lui l’Uomo nero, non quello delle nevrosi razziste e antirazziste che fanno da contorno alla vicenda, bensì l’Uomo nero delle fiabe. Un’etichetta che non meritava e che, per sue fortuna, gli è stata strappata di dosso in tempi abbastanza rapidi.