Tra le condanne del processo Athena anche un episodio avvenuto alle porte della città dei bruzi. Un capo d’imputazione consolidatosi anche grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia
Tutti gli articoli di Cronaca
PHOTO
Nelle motivazioni della sentenza di primo grado del processo Athena, la Corte ha ritenuto provata la responsabilità di Nicola Abbruzzese, reggente della cosca omonima di Cassano allo Ionio, Michele Di Puppo, esponente del gruppo criminale cosentino, e degli imputati Gianluca Maestri e Ivan Barone. Un episodio che certificherebbe la collaborazione criminale in ambito ‘ndranghetistico tra i due clan cosentini: gli italiani e gli “zingari”.
Tutti sono stati condannati per estorsione aggravata dal metodo mafioso, aggravata dalla direzione del sodalizio e dalla finalità di agevolare le consorterie di riferimento. Secondo quanto ricostruito dal pm Alessandro Riello, gli imputati agirono in concorso tra il gennaio e il febbraio 2020 per imporre a una società di Montalto Uffugo la consegna di 30mila euro.
La pressione estorsiva si sarebbe articolata in tre episodi distinti: il posizionamento di una bottiglia incendiaria davanti alla sede della società, commesso da Barone; il danneggiamento di un autovelox lungo la SS 534; una telefonata intimidatoria rivolta al marito della titolare, con il chiaro avvertimento che “la prossima volta la benzina sarà buttata addosso a te”.
Il metodo mafioso
Il gup Gilda Romano ha sottolineato come le condotte non fossero semplici atti vandalici, bensì gesti funzionali a trasmettere l’intimidazione tipica delle organizzazioni criminali. L’azione congiunta di Abbruzzese e Di Puppo ha rappresentato la saldatura tra due aree di influenza mafiosa, Cassano e Cosenza, finalizzata a rafforzare il potere delle cosche e a incamerare proventi illeciti.
Le prove decisive
Decisivi per la condanna sono stati i contributi dei collaboratori di giustizia Maestri e Barone, le intercettazioni ambientali, i servizi di osservazione e le immagini di videosorveglianza che hanno ripreso l’esecutore materiale mentre collocava la bottiglia incendiaria.
La tesi difensiva di Michele Di Puppo, che in extremis aveva tentato di attribuirsi l’esclusiva responsabilità, è stata rigettata perché tardiva e smentita dai riscontri oggettivi.
Nelle motivazioni si afferma che le minacce e i danneggiamenti «si inseriscono pienamente nella logica del metodo mafioso», con l’obiettivo di piegare la vittima e consolidare l’egemonia delle consorterie.