Dalle lacrime cosentine al Mondiale, l’importanza di chiamarsi De Petrillo
Intervista a "Lino il rosso" che nel 1983 vinse il Trofeo anglo-italiano con i Lupi, suo figlio ne ha seguito le orme ed è nello staff tecnico della Polonia
Tra chi guarda all’Argentina o al Brasile, terre di emigranti, e chi invece tiene alla Francia (siamo pur sempre “cugini”), la diaspora degli sportivi italiani, orfani di una nazionale per cui tifare ai Mondiali, si risolve per lo più nella ricollocazione in questi due blocchi. C’è un pubblico di nicchia, però, che ha fatto una scelta diversa, sposando la causa della Polonia. A trascinarli è la presenza nello staff dell’italianissimo Alessio De Petrillo, l’allenatore in seconda della squadra in cui milita Robert Lewandoski, che ricopre questo incarico dal 2021.
Alessio è figlio d’arte. Suo padre, infatti, è Lino De Petrillo, detto “Il rosso di Roccamonfina” per via della sua capigliatura fulva. I calciofili cosentini lo ricordano bene perché allenò i Lupi nella stagione 82/83 (subentrando a Lucio Mujesan) e anche nel campionato successivo, poi sostituito in corsa da Gianpiero Ghio. Memorabile è soprattutto il suo primo anno di permanenza in riva al Crati che, oltre a un buon piazzamento in classifica portò in dote anche la conquista del glorioso e ormai estinto Trofeo anglo-italiano.
Nella sua lunga e onorata carriera, oltre al Cosenza, Lino il rosso ha allenato fra le altre anche la Nocerina, il Campobasso, il Potenza, il Catania, il Benevento e il Rende. Oggi ha la bellezza di 88 anni, risiede in Versilia e continua a seguire il calcio, non solo come ospite di trasmissioni televisive, ma anche attraverso i social network. Nelle ultime settimane, sulla sua pagina Facebook non si parla che del sogno polacco in Qatar. E di suo figlio, del quale ovviamente lui è il primo tifoso.
Suo figlio è mai stato a Cosenza?
«Ho un ricordo per me speciale che lo lega a questa città. Negli anni Settanta allenavo il Campobasso e venimmo a giocare qui. Alessio era un bimbo, mi veniva sempre dietro, anche in trasferta. Giunti al San Vito, siamo entrati nello stadio con il pullman, ma lui è rimasto a bordo con l’autista e da lì ha visto la partita. Perdemmo uno a zero, e quando risalii sul bus lo trovai che piangeva a dirotto. “Abbiamo perso, abbiamo perso” mi ripeteva tra i singhiozzi. Gli stetti vicino finché non si addormentò. E si svegliò a Campobasso».
Le somiglia come allenatore?
«Ha il mio stesso carattere. Lui, però, è uno studioso, io facevo le cose in modo più empirico».
Il calcio oggi è cambiato, tutto schemi e pressing
«Il calcio è sempre lo stesso. Prima si diceva: gioca con una punta, con due punte ecc. Oggi sono cambiate le parole, ma la sostanza è sempre quella».
Chi fu a volerla come allenatore dei Lupi?
«Mi telefona Franco Rizzo, il direttore sportivo. La squadra era negli ultimi posti, erano incasinati. Cosi arrivo io e ci risolleviamo prestissimo, arrivando al sesto posto. Abbiamo vinto anche il Trofeo anglo-italiano. Rimasi anche l’anno successivo, però fra me e la società si verificò una frattura».
Insanabile?
«Volevo mantenere quell’organico, ma loro erano contrari. Così smantellano tutto. Ripartiamo con una squadra rinnovata, e all’inizio andiamo benissimo. Poi arriva la partita di Bari, con l’arbitro che ci butta fuori centravanti e stopper. Giocammo in nove contro undici, perdendo solo due a uno».
E da allora qualcosa è cambiato…
«Siamo andati avanti ancora per qualche domenica, ma poi avvenne un fatto insolito. Petrella, un altro grande, viene da me e mi riferisce di aver sentito davanti a un bar un dirigente criticare me e la squadra. Affronto quel dirigente in modo violento e naturalmente lui nega tutto».
Finisce lì?
«Eh no, andai via da Cosenza. Mi hanno richiamato dopo un paio di mesi perché le cose non andavano bene, ma non tornai».
I calciatori più forti che ha allenato a Cosenza?
«Ne cito qualcuno a caso, ma erano davvero tutti bravi: Oddi, Longobucco, Silipo, Truddaiu, e poi era appena arrivato Marulla».
E invece il più forte in assoluto?
«Ho allenato grandi giocatori, ma se dovessi fare un solo nome direi Marcello Lippi, che ho avuto alla Lucchese. Siamo rimasti amici, abita vicino a Viareggio. Un giorno a Coverciano dove mi recavo spessissimo per espletare i miei compiti con l’associazione allenatori, lo trovo era in ritiro con la nazionale. Allora gli dico: “Marcello, non chiamarmi più mister, tu alleni la Nazionale”. E lui mi risponde: “Mister, il rispetto è rispetto”. Mi si sono inumiditi gli occhi».