A vent’anni dalla morte a Baghdad, la figlia maggiore del funzionario del Sismi, cresciuta anche Cosenza, racconta al Corsera l’uomo dietro la divisa: valori, senso dello Stato e un ultimo atto di coraggio
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«Un uomo perbene, che ha servito con dignità e onore lo Stato». Con queste parole, Silvia Calipari tratteggia la figura di suo padre, Nicola Calipari, alto funzionario del Sismi caduto il 4 marzo 2005 a Baghdad, ucciso dal fuoco amico di un check-point statunitense mentre riportava in libertà la giornalista Giuliana Sgrena.
Per molti, un eroe. Per lei, qualcosa di ancora più intimo. «Il mio eroe sicuramente – precisa la giovane che è cresciuta anche a Cosenza quando suo padre dirigeva la Squadra Mobile nella città dei bruzi – ma pubblicamente no, perché per me gli eroi sono anche persone che vogliono apparire. Lui invece aveva grandi valori, un forte senso dello Stato e un immenso rispetto della vita».
Quando si ricorda che per Giuliana Sgrena Calipari fu senza dubbio un eroe, Silvia non ha esitazioni: «Ha fatto quello che era nella sua natura. Aveva promesso e si era promesso che l’avrebbe riportata a casa. Ha onorato l’impegno».
Un sacrificio che ha fatto la storia
Era il 4 marzo 2005. Giuliana Sgrena, rapita a Baghdad il 4 febbraio e prigioniera per un mese, veniva liberata grazie a un’operazione dei servizi segreti italiani. Alla guida di una Toyota Corolla, Calipari la stava scortando verso l’aeroporto, dove li attendeva un volo per l’Italia.
Mancava meno di un chilometro all’aeroporto quando una raffica di proiettili americani colpì l’auto. Calipari, in un gesto divenuto simbolo, si gettò sul corpo della giornalista proteggendola con il proprio. Morì sul colpo.
Il caso scatenò tensioni diplomatiche tra Italia e Stati Uniti e accese un dibattito sull’operato delle truppe alleate in Iraq. La sua storia è stata raccontata anche dal film Il Nibbio, disponibile su Netflix.
Il ricordo privato di Silvia
Silvia, figlia maggiore, allora aveva 19 anni. Quel giorno, davanti alla televisione, accolse con gioia la notizia della liberazione di Sgrena: «Ho pensato: ecco, finalmente papà torna a casa. E invece…».
La voce si incrina quando ricorda il momento in cui apprese la verità. «Solo dopo ho saputo da mia madre che quella doveva essere la sua ultima missione, che aveva già deciso di rientrare in polizia. Io comunque avevo intuito il suo malessere».
Un malessere silenzioso, maturato dopo anni di servizio in un contesto internazionale complesso e pericoloso. Ma mai, racconta Silvia, un cedimento nel senso del dovere o nell’impegno a proteggere vite umane.
Un’eredità morale
A vent’anni da quella notte, la figura di Nicola Calipari resta impressa non solo nei libri di storia e nelle cronache dell’epoca, ma soprattutto nei ricordi della sua famiglia. «Il mio eroe», lo definisce Silvia, non per il gesto eclatante, ma per l’intera vita spesa al servizio del Paese, senza cercare gloria personale.
Una testimonianza che restituisce al pubblico l’immagine di un uomo di Stato che credeva nella missione di proteggere e servire. E di un padre che, anche nell’ultimo istante, mantenne fede alla parola data.